Il suo nome deriva dalla parola latina “mustum”, il mosto, a sottolinearne la dolcezza. A questa secondo alcuni si aggiunge un semplice suffisso ard tipico delle lingue germaniche, ma altri tornano al latino ipotizzando “ardens”, ardente, a sottolinearne la piccantezza. Ed ecco svelate dal nome stesso le due anime della mostarda, dolce e forte insieme. Una specialità tutta italiana, che niente ha a che fare con l’omonima moustard francese o con l’inglese mustard, i cui nomi noi traduciamo semplicemente con “senape”.
Di mostarde in Italia ce ne sono diverse tipologie, prodotte con ingredienti differenti, principalmente nell’area Padana, anche se nel Meridione si trovano “mostarde” diverse da quelle di tradizione lombarda, veneta ed emiliana, a base appunto di mosto.
A queste si aggiunge la mostarda toscana, la cui ricetta si dice risalga al Trecento, e che comprende mosto d’uva, mele, pere, scorze di agrumi candite, miele, vin santo, aceto, e ovviamente senape, in una sorta di marmellata piccantina. A base di mele e pere cotogne è invece la mostarda bolognese, dal gusto leggermente aspro.
Pere e mele cotogne sono protagoniste anche nella mostarda vicentina, ma frullate: il risultato è una salsa cremosa, arricchita da pezzi di frutta candita. È probabilmente questa la mostarda più simile, almeno nella consistenza, a quella descritta dal maestro Martino da Como, che nel XV secolo scriveva: «Piglia la senepa et mettila a moglio per doi dì mutandogli spesso l’acqua perché sia più biancha, et habi delle amandole monde et piste come vogliono essere. Et quando seranno ben piste metterai con esse la ditta senepa, et di nuovo le pistarai insieme molto bene. Poi habi di bono agresto overo aceto pistandogli etiandio una mollicha di pane biancho; poi distemperala et passala per la stamegnia. Et fallo voi lo dolce o forte como ti piace». La sua ricetta di mostarda contemplava dunque le mandorle, che ritornano oggi in alcune piccole produzioni di pregio.
Particolare è poi la mostarda mantovana, realizzata con mele, pere cotogne e anguria bianca, da soli o insieme. Per ottenerla si lascia macerare la frutta a fette con zucchero e limone. Dopo un giorno la frutta viene sgocciolata e il liquido che si è formato è portato a bollore; si toglie dal fuoco, si unisce nuovamente la frutta si lascia per altre 24 ore in infusione. Il procedimento va ripetuto in questo modo fino al quarto giorno: la frutta viene passata in padella a caramellare con il suo liquido, che deve diventare denso, mentre la frutta si deve mantenere croccante. Solo a questo punto si unisce la senape.
La mostarda più nota è però sicuramente quella cremonese, preparata a partire da frutti assortiti, canditi interi oppure tagliati a grossi pezzi, quindi messi in uno sciroppo di zucchero e glucosio che viene addizionato di essenza di senape: il procedimento di canditura dura fino a due settimane, e prevede l’uso di una soluzione zuccherina che viene gradualmente resa più densa e dolce.
Una volta che la frutta è diventata dolce e che i suoi colori si sono fatti accesi, brillanti, viene posta nella bagna di conservazione, fatta con acqua, zucchero, sciroppo di glucosio ed essenza di senape. È quest’ultima a rendere possibile la conservazione e a dare il caratteristico gusto piccante al prodotto. Ciliegie, albicocche, pere, pesche, mandarini, fichi, ma anche melone, anguria, cedri, prugne e zucche cambiano pelle, ma devono essere sempre riconoscibili per aspetto, consistenza e gusto.
La mostarda di Cremona non deve essere un tutt’uno dal sapore indistinto, ma un vero e proprio mosaico di frutta. In origine era concepita proprio per assicurare una scorta di frutta anche d’inverno: veniva preparata tra le mura dei monasteri, dove i frati avevano abbondanza di frutta nella bella stagione che si trasformava in una preziosa (e golosa) riserva nei mesi più freddi.
Quasi del tutto simile a quella di Cremona, e ugualmente antica, è la mostarda di Voghera, anzi, è proprio questa la prima mostarda di cui si ha traccia nella storia, un Sant’Ambrogio di tanti tanti anni fa. Il 7 dicembre del 1397 il cancelliere di Giangaleazzo Visconti, duca di Milano, inviò una lettera al podestà di Voghera, perché ordinasse allo speziale Pietro de Murri uno “zebro” (mastello) di “mostarda de fructa cum la senavra”, la senape; quella di Voghera era considerata la migliore, ed era prediletta dalla duchessa Caterina: i Visconti non potevano farne a meno in occasione delle festività del Natale, quando la portavano in tavola con carni, bolliti e vitelli allo spiedo.
Di qui notizia della profondità delle radici storiche dell’usanza lombarda di assaporare la mostarda a Natale: ancora oggi la si serve in abbinamento al classico cappone o agli arrosti protagonisti sulla tavola delle feste, o la si propone insieme a un vassoio di formaggi. Sono questi gli accostamenti più riusciti, e i più apprezzati, da realizzare tenendo conto dei gusti personali e di una semplice regola: la mostarda più forte, pungente e senapata si sposa meglio con le carni dal sapore importante e con i formaggi stagionati, quella più dolce con i prodotti più delicati, che altrimenti verrebbero prevaricati.
Senza dimenticare che la mostarda può essere anche un dessert, dal gusto un po’ antico: una goccia di sugo di mostarda a “condire” il mascarpone era un tempo considerata la chiusura di un pasto degna dei migliori buongustai.