Sfortuna, distrazione, inesperienza e maldestria, con l’aggiunta di ingegno, ottimismo, zucchero e poco altro. E se vi dicessimo che sono questi gli ingredienti principali di alcuni dei dolci più amati e noti, divenuti veri e propri capisaldi della tradizione dolciaria internazionale?
Già, perché ben prima che chef Bottura battezzasse il suo iconico dessert “Ops… mi è caduta la crostata”, c’è stata una stirpe di pasticceri pasticcioni (non necessariamente in questa gerarchia di titoli) che hanno dato nuova linfa all’arte della pasticceria grazie ai loro apparenti disastri. Ecco qui alcuni dei più celebri (benedizioni di cui rendere grazie!).
Il panettone, o meglio: il “Pan de Toni”
Il Natale si avvicina e dunque non potevamo che partire da lui: il panettone. Simbolo delle Feste italiane per eccellenza, questa specialità di Milano (dove in realtà viene prodotto quasi tutto l’anno) avrebbe avuto origine per caso ai tempi di Ludovico Il Moro, nato dalla necessità di per rimediare a un guaio compiuto dal cuoco degli Sforza, che proprio la sera della Vigilia bruciò il dessert. A cercare una soluzione ci pensò il garzone Toni: con l’impasto avanzato e pochi altri ingredienti disponibili in cucina (farina, zucchero, uova, uvetta e canditi) realizzò un dolce lievitato che ebbe tanto successo da entrare nella tradizione di casa Sforza e diventare una vera e propria istituzione per l’intero capoluogo lombardo: il “pan de Toni” poi ribattezzato “Panettone”.
L’anello “di Monaco” (o “del monaco”?)
Detto anche nusskrantz, l’anello “di Monaco” o “del monaco”, è un dolce di Natale tipico della tradizione mantovana, con un impasto simile a quello del panettone di Milano e del pandoro veronese, un ripieno a base di nocciole e mandorle tostate, zucchero e Marsala (ma non mancano varianti a base di cioccolato, canditi o uvetta) e una copertura di glassa reale e, talvolta, confetture di albicocche. C’è chi lo considera un discendente “arricchito” del kugelhupf (o gugelhupf) austro-tedesco, un dolce tipico della tradizione dolciaria mitteleuropea, importata e reinterpretata dal pasticcere svizzero Adolf Putcher trasferitosi a Mantova alla fine del Settecento. Ma una leggenda più romantica, fa risalire la sua origine all’estro di un monaco dell’Abbazia di San Benedetto in Polirone, che cercando di inventare una versione più ricca della classica ciambella casereccia, commise un errore di lievitazione, da cui derivò la forma distintiva del dolce, “a fungo rovesciato” con buco al centro.
Panforte e Panpepato: piccantezze involontarie
Speziati e dal retrogusto leggermente acidulo, panforte e panpepato sono due dolci medievali originariamente distinti tra loro, le cui ricette si sono confuse e sovrapposte nel tempo per effetto della progressiva aggiunta nei “panes melatos e pepatos” (pani insaporiti di pepe e miele) di fichi, mele, uva, mandorle e una profusione di spezie varie (“fortis”). Una delle leggende legate alla loro origine, attribuirebbe il merito della loro creazione a tale suor Ginevra, una giovane che, convintasi della morte del suo amato messer Giannetto da Perugia durante le crociate, si sarebbe chiusa in convento. Un giorno, mentre era intenta alla preparazione di un pane dolce, sentì la voce dell’amato provenire da fuori e, per la forte emozione, rovesciò nell’impasto una mix di pepe e spezie, canditi e semi di zucca in quantità, dando origine alla gustosa prelibatezza.
Tiramisù… ma prima fammi cadere!
Anche il dolce italiano più famoso, ordinato, imitato e rivisitato al mondo sarebbe frutto di uno scivolone culinario, o meglio di una vera e propria caduta: il tiramisù. Le coordinate geografiche e temporali relative al “debutto in società” di questo dolce sono precise (a Treviso nel 1970 presso il ristorante Le Beccherie di Aldo Campeol), ma la sua origine , c’è ancora dibattito sull’atto della sua creazione, che una vox populi riconduce alla caduta involontaria di un po’ di mascarpone nella preparazione dello “sbatudin”, un composto montato a base di tuorlo d’uovo e zucchero. Lo chef pasticcere in cucina, Loly Linguanotto, estasiato dal sapore di quel casuale miscuglio, lo utilizzò per realizzare un dessert ispirato alla zuppa inglese e alle bavaresi che aveva conosciuto lavorando in Germania: lo spalmò sui savoiardi imbevuti nel caffè e gettò le base per una ricetta che, arricchita in seguito con cacao e talvolta liquore Marsala, è stata brevettata solo nel 2010.
Azzardi benedetti…
I brigidini toscani sono cialde sottili, croccanti e friabili a base di farina, zucchero, uova e anice, molto diffuse nelle fiere toscane ed italiane. La loro ricetta risale al XVII-XVIII secolo e, secondo la leggenda, non sarebbe altro che ostie da Comunione venute male. Nella zona attorno al convento di Lamporecchio (in provincia di Pistoia) erano infatti le suore dell’ordine di Santa Brigida (appunto dette “brigidine”) a produrre le cialde eucaristiche per le parrocchie circostanti. Un giorno suor Maria ebbe la colpa (o il merito) di sbagliare l’impasto, ma per non buttarlo diede vita a sfoglie sottili ma dai bordi “volanti”, che divennero subito famosi e richiesto nella zona.
Sempre all’ambito monacale si rifà la tradizione delle ostie ripiene, un dolce tipico di Monte Sant’Angelo, in provincia di Foggia, che sarebbe nato nelle cucine del Monastero della Santissima Trinità. Qui alcune monache clarisse non trovarono altro che ostie per recuperare delle mandorle cadute nel miele caldo, e da allora diedero vita al tipico dolce di forma ovale costituito da due cialde farcite di mandorle tostate e caramellate con zucchero e miele.
… e peccati monacali
Le tette delle monache (dette anche “sise delle monache” o “sospiri”), invece, sono dolci tipici dell’alta Murgia (in particolare di Altamura), ma diffuse in tutta la Puglia e Basilicata. Si tratta di soffici gusci di pan di spagna ripieni di crema chantilly e ricoperti di zucchero a velo, dalla forma particolare che ricorda, appunto, un seno. La leggenda narra che la loro nascita (e il loro nome) deriverebbe dall’errore di lievitazione commesso da una monaca durante la preparazione di un pan di Spagna, che quindi avrebbe assunto una forma appuntita e peccaminosa, al punto da attirare il commento di un passante che esclamò in dialetto: «Le monne de le suor!».
Quel che è certo è che ad Altamura, fino a poco tempo fa, esisteva un presidio di suore depositarie della ricetta di questo dolce, che lo preparavano all’interno del monastero di Santa Chiara, rigorosamente a mano.
Provvidenziali dimenticanze (internazionali)
Secondo alcuni racconti, la torta simbolo di Capri sarebbe nata attorno agli anni Venti da un mix di fretta e paura: tre gangster di Al Capone vennero mandati nella pasticceria di Carmine di Fiore a ordinare la sua torta alle mandorle. Per l’agitazione nel trovarsi di fronte quei clienti minacciosi e per l’eccessiva sollecitudine con cui il pasticcere si adoperò a servirli, dimenticò di aggiungere la farina nell’impasto. Invece di costargli caro, quell’errore ottenne un tale apprezzamento dagli acquirenti e dagli altri isolani da entrare nella tradizione pasticcera dell’isola e negli anni fu denominato, appunto, torta caprese.
Tart tatin
Anche la tart tatin, la celebre torta di mele “rovesciata” nata in Francia a fine Ottocento è frutto della dimenticanza di una delle due sorelle di cui porta il nome, Stephanie Tatin, che insieme alla sorella Caroline era proprietaria dell’Hôtel-restaurant Tatin di Lamotte-Beuvron (nella Loira).
Secondo la leggenda, un giorno in cui la sala era piena di clienti, costei dovette rimediare all’ultimo momento alla mancata preparazione del dessert. Così imburrò e cosparse di zucchero una tortiera, ci mise dentro le mele e la infornò, dimenticando per la fretta di rivestire di pasta brisée la base dello stampo. Per rimediare all’errore decise di coprire invece la parte superiore e di servire la torta rovesciata, mettendo in vista lo strato di mele caramellate. L’apprezzamento fu tale che questa torta “sbagliata” divenne una ricetta codificata, famosa in tutto il mondo, imitata ovunque e reinterpretata con altra frutta o anche in versione salata.
Fortuna del principiante o virtù dell’imbecillità?
Restando il territorio d’oltralpe, persino la rinomata ganache au chocolat (o “crema parigina”), riconosciuta come una delle basi irrinunciabili della pâtisserie fabriqué en France sembra sia nata per caso. Si tratterebbe infatti del frutto della sbadataggine di un giovane apprendista della Patisserie Siraudin in Rue de la Paix di Parigi. Nel 1850 (ma secondo alcuni il fatto sarebbe avvenuto nel 1920 nel laboratorio del famoso pasticcere Georges Auguste Escoffier), mentre era intento a preparare la crema pasticcera, avrebbe rovesciato accidentalmente un pentolino di latte bollente in un recipiente pieno di pezzi di cioccolata, tentando poi di rimediare al danno amalgamando lentamente gli ingredienti. Il maestro lo rimproverò dandogli del “ganache” ovvero del “imbecille”, ma poi si accorse che dall’errore dell’allievo era risultata una crema lucida e setosa, che in seguito lo avrebbe portato al successo.
Anche la mousse avrebbe avuto un’origine simile, ma in questo caso il fortunato errore sarebbe occorso in una nobile cucina francese del XVIII secolo: un garzone fece cadere della panna calda in una ciotola piena di cioccolata e allora pensò di unire delle uova al composto e, mescolando pazientemente, ottenne una consistenza semimontata e riuscì a creare un dessert morbido, divenuto presto celebre tra le classi elitarie, le uniche ad avere una ghiaccia, fondamentale per la sua conservazione e per garantire la giusta temperatura di servizio (4/8°C) e poi diffusosi sul mercato grazie all’avvento del frigorifero.
Infine, anche la famosa crêpe suzette, dessert flambé al Grand Marnier tra i più apprezzati di Francia, sarebbe stata opera di un apprendista sbadato: Henri Charpentier. Nel 1895, quando il principe di Galles Edoardo (figlio della regina Vittoria e futuro re del Regno Unito) in visita al Café de Paris di Montecarlo, ordinò una crêpe, il giovane si emozionò a tal punto nel preparargliela che versò troppo liquore nella salsa e questa prese fuoco. Il capocuoco decise di servire lo stesso il piatto al reale e questi apprezzò a tal punto la ricetta da chiedere di dedicarla dell’unica donna presente a tavola, che si chiamava appunto Suzette.
Torta Dobos e Kaiserschmarrn: dolci “sbagliati” che conquistano i sovrani
La Doboš Torte (o torta Dobos), il dolce ungherese per eccellenza, sarebbe nato nel 1884 per la svista di un aiutante del pasticcere Carl Jozsef Dobos, che preparando la crema al burro per farcire i sei strati di pan di Spagna caratteristici del dolce, aggiunse per sbaglio lo zucchero anziché il sale come previsto dalla ricetta dell’epoca. Invece di adirarsi, il suo maestro adottò questa innovativa farcitura e l’anno dopo presentò la torta all’Esposizione di Budapest, dove ottenne un tale apprezzamento da trasformarsi nel dolce preferito della Belle Époque, anche al di fuori del Paese.
Dobo portò la sua creazione in tutta Europa, presentandolo alle varie corti reali e anche l’imperatore Franz Joseph e la moglie Sissi ne erano golosi (addirittura pare che la principessa ne fosse talmente ghiotta da lasciare in gran segreto il Palazzo Reale di Buda per andare a gustarla al Caffè Ruszwurm, la più antica pasticceria ungherese). Tutti i pasticcieri di Budapest provarono ad imitarlo, ma la ricetta originale rimase segreta fino a quando l’ideatore, al momento di ritirarsi dall’attività, la rese pubblica.
Oggi viene indetto un concorso annuale per i pasticceri di Budapest e vince chi, visitato dai membri della giuria più volte nel corso dell’anno, riesce a far trovare una Doboš Torte sempre uguale a dimostrazione della sua professionalità.
Il Kaiserschmarrn (o “frittata dell’imperatore”) è invece una sorta di frittata dolce, tipica della tradizione austriaca e diffusa anche in Trentino Alto-Adige, che viene tagliata a strisce e servita con zucchero a velo e confettura di frutti di bosco. Sarebbe nata dalla richiesta della richiesta di una crêpe da parte dell’imperatore Francesco Giuseppe e dall’errore del pasticcere che la fece cuocere troppo e, girandola, la ruppe, ma non avendo tempo per prepararne un’altra, cercò di mascherare il suo errore servendola tagliata a pezzi e cosparsa di zucchero a velo. L’apprezzamento del sovrano fu tale da fargli pretendere che da allora le sue crêpes venissero preparate sempre così.
Biondo o bruno: questione di tempi e di tinte
La crème brûlée (o “crema bruciata”) evoca l’errore fin dal nome.
Eppure non ci sono aneddoti che facciano pensare a questo dolce francese a base d’uovo come frutto di uno sbaglio (piuttosto parrebbe derivare dalla crème anglaise del Seicento e dalla burnt cream servita presso il Trinity College di Cambridge nell’Ottocento).
Riguardo la crema catalana, invece, esiste una leggenda secondo la quale sarebbe nata nel XIV secolo quando, in occasione della visita del vescovo presso il loro convento, alcune monache catalane avrebbero preparato un budino, risultato però troppo liquido. Per nascondere l’errore le religiose avrebbero dunque ricoperto la superficie di zucchero, caramellandolo e dando vita alla crema cremada (ossia “bruciata”). Una sorte analoga sembra caratterizzare la confiture de lait (“confettura di latte”, nota anche come doce de leite in Brasile, dulche de leche in Argentina, manjar blanco in Cile): che sembra essere nato per l’errore di un cuoco dell’esercito Napoleonico che avrebbe lasciato cuocere troppo il latte zuccherato destinato ai soldati, ottenendo una crema color caramello.
Similmente il Dulcey, il cioccolato “biondo” firmato Valrhona, nasce da una dichiarata dimenticanza di Frédéric Bau, chef de l’École du Grand Chocolat di Tain l’Hermitage, che durante una dimostrazione lasciò del cioccolato bianco un po’ troppo a lungo a bagnomaria.
Questa svista conferì al cioccolato un colore biondo e un delicato profumo di sablé tostato e di latte caramellato e dunque ispirò la maison francese a mettere a punto un particolare processo di produzione di questo tipo di cioccolato, dando origine a Blond Dulcey 35%, dalla consistenza cremosa e avvolgente, dalla dolcezza poco zuccherata con una nota biscottata e punte di spiccata sapidità che ben si sposano con molti ingrediente (come albicocca, banana, mango, caramello, caffè e nocciola).
Dimenticanze (e rimedi) al femminile
Anche la tradizione dolciaria d’oltreoceano più fortunata sembra derivare da alcuni sbagli professionali e casalinghi. Ne sono un esempio i brownies, i famosi dolcetti americani che secondo alcuni devono la loro invenzione a un giovane cuoco statunitense (ma la versione più accreditata vede protagonista una casalinga del Maine), che nel prepararli dimenticò completamente di aggiungere il lievito all’impasto e quindi, invece della torta alta e soffice che si aspettava di tirare fuori dal forno, ottenne un impasto basso e compatto come un fudge ma comunque buonissimo, che tagliò a piccoli quadrotti per servirlo ai suoi clienti.
Sempre a una donna, Ruth Wakefield, proprietaria negli anni Trenta del Toll House Inn in Massachusetts, andrebbe attribuita l’ideazione dei cookies (o chocolate chip cookies), gli iconici biscottoni con gocce di cioccolato. Secondo la leggenda, la cuoca stava preparando i biscotti che serviva sempre insieme al gelato, quando si accorse di aver finito il cacao amaro e decise così di spezzettare una tavoletta di cioccolato al latte e mescolarla all’impasto sperando che si sciogliesse completamente in cottura. Un errore di valutazione (o, secondo alcuni, il frutto di molte prove) che avrebbe dato origine a uno dei simboli della pasticceria a stelle e strisce.
Il Futurismo involontario di Bottura
L’abbiamo citata in apertura e quindi è doveroso riservarle un paragrafo esclusivo, in quanto emblema di un nuovo modo di interpretare l’errore in cucina. La crostatina al limone, capovolta e rotta divenuta piatto iconico dello chef tristellato Massimo Bottura, non ha nulla a che fare con un’ispirazione futuristica ma deriva da una rovinosa caduta del dolce sul piano durante il servizio.
Una “destrutturazione” involontaria dunque, dalla quale però è derivata però l’intuizione dello chef: impiattare ugualmente il dolce trasformandolo nel “manifesto” di una consapevole celebrazione della casualità e dell’imperfezione. Insomma un atto di vanità e umiltà insieme, che non camuffa l’errore ma lo accetta e lo esibisce, come segno dell’impegno a non sprecare, ma soprattutto come dimostrazione che la bellezza non sta nell’apparenza rassicurante della superficie, bensì nell’intenzione e nella capacità di vedere “oltre”.