Uno studio estremamente accurato ha analizzato il nesso tra QI e retribuzione totale nell’arco della vita, concentrandosi sulla parte più alta (lo 0,5 per cento) della curva di distribuzione del QI.
I dati riguardano gli alunni delle scuole californiane selezionati sulla base di un’indagine compiuta nell’anno scolastico 1921-1922: lo studio ricostruisce, per 856 uomini e 672 donne, quanto hanno guadagnato nell’arco della loro vita. Ne emerge che un punto in
più di QI è correlato a un maggior reddito di circa il cinque percento, che si traduce, nel corso della vita, in un totale di 184.100 dollari in più. In altre parole, perfino all’interno della categoria di coloro che hanno riportato punteggi molto alti nei test di QI, essere «ancora più intelligenti» è correlato a un notevole aumento della retribuzione. Ecco il punto cruciale: in questo gruppo con QI elevato, il gradiente retribuzione/QI è più ripido che nella popolazione complessiva.
Questo gradiente più inclinato nella parte alta della curva è in linea con la nostra convinzione che l’intelligenza sia un fattore importante soprattutto nel caso di chi ottiene risultati estremamente alti. Questa tesi ‒ secondo cui l’intelligenza conta particolarmente ai più alti livelli di risultati ‒ è stata verificata su larga scala in Svezia: il set di dati comprendeva 12.570 lavoratori nel periodo che va dal 1968 al 2007.
Dai dati su questa popolazione emerge che la personalità e la coscienziosità contano soprattutto nel tratto inferiore della curva di distribuzione. Nell’ultimo decile dei percettori di reddito, per esempio, le abilità non cognitive – ivi compresi tratti di personalità – sono da due volte e mezzo a quattro volte più importanti delle abilità cognitive.
Ma per la popolazione in generale una deviazione standard 1 nelle abilità cognitive è associata a un incremento salariale maggiore rispetto a una deviazione standard 1 nelle abilità non cognitive (la deviazione standard è un concetto statistico che indica il grado di dispersione di una variabile nell’ambito di un campione: se quest’ultima ha una «distribuzione normale», circa il 68 per cento dei casi di quel campione si collocherà in una fascia con deviazione standard 1 su ognuno dei lati della media o della mediana).
Inoltre, tra abilità cognitiva e salari esiste una relazione convessa: ossia quanto più si sale nella distribuzione dei salari, tanto più le abilità cognitive predicono il reddito. In altri termini, è, ancora una volta, nella parte superiore della curva di distribuzione dei risultati che l’intelligenza conta davvero.
Tuttavia, neanche questo ci autorizza a vedere nell’intelligenza misurata una sorta di garanzia di successo lavorativo: quanto meno perché la maggior parte delle persone con alta intelligenza misurata finisce per non avere un grande successo. Probabilmente per molti supertalenti vale il cosiddetto modello moltiplicativo del successo, in base al quale il successo richiede una combinazione piuttosto stretta di caratteristiche diverse: le variabili che segnalano la presenza particolarmente marcata di determinate caratteristiche si rafforzano in qualche modo a vicenda, generando un potente effetto complessivo.
Per arrivare ai massimi livelli come compositore di musica classica, per esempio, probabilmente servirà una miscela di abitudini lavorative, genio musicale, abilità pianistica, abilità orchestrale, tenacia e, infine, provenienza da un importante centro musicale mitteleuropeo. Se tutte queste caratteristiche sono presenti, è possibile che producano un risultato straordinario, magari un Mozart o un Beethoven. Ma se manca anche solo uno di quei tratti, il successo non arriverà. Il genio musicale, senza (per esempio) le giuste abitudini lavorative, rischia di produrre un brillante improvvisatore che non prenderà mai carta e penna per comporre una sinfonia che lasci davvero il segno.
Ecco la testimonianza di Vladimir Akopian, un brillante scacchista armeno che, non essendosi mai dedicato totalmente agli scacchi, non è mai arrivato ai vertici: «Sono convinto che esistano numerosi scacchisti di grande talento. Mi capita spesso di incontrarne.
Selezionare molti giocatori di talento è facile, non richiede niente di speciale. Ciò che è invece molto importante in uno scacchista è il duro lavoro. E non solo: anche la mancanza di carattere o di stabilità psicologica fanno la differenza. Gli scacchi sono estremamente complicati, e tutte queste cose contano. Se si guarda solo al talento, esistono molti altri giocatori, oltre a me, superiori forse agli stessi top player. Questo è assolutamente possibile. Ma se si guarda a tutto – non solo al talento, ma anche alla voglia di impegnarsi a fondo e sacrificare tutto il resto, alla forza psicologica – sono pochi quelli che hanno tutto ciò che serve per arrivare in cima. […]
Sono molti i fattori che devono essere a posto, in un giocatore, affinché possa entrare a far parte dell’élite mondiale». E a parte le massime vette degli scacchi, dove i campioni sono effettivamente molto intelligenti, in questo gioco i dati empirici non confermano un solido collegamento tra intelligenza e risultati.
Talento, Tyler Cowen, Daniel Gross, Egea, 254 pagine, 24,90 euro