Il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, è da tempo considerato l’antagonista per eccellenza del presidente Recep Tayyip Erdogan e da mesi si rincorrono voci sulla sua candidatura alle prossime elezioni alla testa della coalizione d’opposizione. La possibilità che il primo cittadino, esponente del partito kemalista Chp, guidi il cosiddetto “Tavolo dei sei” è però sfumata dopo la condanna a due anni e sette mesi decisa dalla Corte di Istanbul. I legali di İmamoğlu hanno fatto ricorso alla Corte di appello, ma i tempi della giustizia turca sono troppo lunghi perché la risposta arrivi in tempo per le prossime presidenziali, previste per giugno del 2023.
La condanna, salvo un ribaltamento in ultimo grado, non prevede la carcerazione effettiva perché è al di sotto del limite previsto nel Paese per l’applicazione della pena, ma comporta un allontanamento della vita politica per la durata della sentenza. İmamoğlu dunque dovrebbe anche rinunciare alla sua carica di sindaco, oltre a dover dire addio alla speranza di correre alle prossime urne.
L’accusa mossa al primo cittadino di Istanbul è di aver insultato alcuni funzionari elettorali dopo la decisione della Commissione di annullare le elezioni comunali del 2019 dietro pressioni del presidente, che aveva fatto ricorso per irregolarità. Nello specifico, İmamoğlu aveva definito «idioti» i responsabili di questa scelta, ma secondo quanto dichiarato dal sindaco stesso il suo commento era in realtà diretto al ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, che lo aveva in precedenza definito un pazzo, accusandolo tra l’altro di aver criticato la Turchia in sede europea.
Alla fine le elezioni comunali sono state ripetute pochi mesi dopo il loro annullamento, ma il risultato è rimasto immutato, a tutto svantaggio del presidente e del suo partito. La condanna definitiva di İmamoğlu è invece una buona notizia per Erdogan. Il presidente deve fare i conti con un calo senza precedenti del consenso e l’esclusione di una figura come quella del sindaco di Istanbul rende meno aspra la competizione alle prossime elezioni. A guidare l’opposizione potrebbe essere a questo punto Kemal Kılıçdaroğlu, leader del Chp, ma si tratta di un personaggio che non sembra godere dello stesso consenso tra gli elettori.
D’altronde İmamoğlu non è il primo a finire in carcere per motivazioni politiche. A inizio anno aveva fatto scalpore la notizia della condanna all’ergastolo di Osman Kavala, filantropo turco accusato di aver sostenuto le proteste di Ghezi Park e di aver voluto rovesciare il governo. L’uomo era già agli arresti domiciliari quando i giudici si sono pronunciati sul suo caso nonostante i ripetuti interventi della Corte europea per i diritti umani (Cedu) che aveva definito la detenzione di Kavala «un abuso» nonché uno stratagemma per creare «un effetto dissuasivo sui difensori dei diritti umani».
Sempre quest’anno è arrivata anche la sentenza ai danni di Canan Kaftancioglu, presidente della sezione di Istanbul del Chp, condannata in via definitiva a quattro anni, undici mesi e venti giorni di reclusione con l’accusa di offese al presidente e allo stato turco. Femminista, apertamente a sostegno dei movimenti Lgbtq+ e figura di spicco del partito kemalista, Kaftancioglu è nota per la sua opposizione al presidente ed è grande sostenitrice di İmamoğlu. Anche nel suo caso è prevista l’esclusione della vita politica e in particolare dalle prossime elezioni, a tutto vantaggio dei partiti dal governo.
Contro le vessazioni politiche e giudiziarie a cui Kaftancioglu è da tempo sottoposta si è espresso in passato anche il Parlamento europeo in una più ampia risoluzione sulla situazione dei diritti umani in Turchia. In quello stesso documento veniva chiesto anche il rilascio dell’ex co-presidente del partito filocurdo Hdp Selahattin Demirtaş, in conformità con la sentenza della Cedu del 2018, e di tutti gli altri membri dell’Hdp ancora in carcere. Sentenze però che la Turchia continua a disattendere senza che vengano presi i dovuti provvedimenti.
Il Consiglio d’Europa potrebbe infatti aprire una procedura contro Ankara, ma ad oggi non sono stati fatti passi in avanti in questo senso e difficilmente la condanna del sindaco di Istanbul porterà dei cambiamenti. Casi giudiziari come quelli di İmamoğlu, Kaftancioglu, Demirtaş e Kavala segnano però una distanza sempre più ampia tra la Turchia e l’Unione europea, nonostante sia ancora tra i Paesi candidati a entrare nell’Ue.
Di questa adesione però non c’è più traccia nei programmi politici di Erdogan, che guarda sempre più spesso verso quei governi autocratici in cui la tutela dei diritti civili e politici dei cittadini sono messi da tempo in secondo piano, anziché verso il Vecchio continente. Dal canto suo, l’Ue possiede gli strumenti per esercitare maggiori pressioni nei confronti di Ankara, ma la presenza di quattro milioni di rifugiati siriani nel Paese anatolico resta un utile strumento di ricatto nelle mani del governo turco. A discapito di chi, nella stessa Turchia, continua a lottare per far valere i propri diritti.