I rapporti tra Turchia e Stati Uniti (e Unione europea) continuano a essere instabili nonostante l’importanza crescente assunta da Ankara nel dossier ucraino e la comune appartenenza all’Alleanza atlantica. A far alzare nuovamente la tensione è stata l’operazione lanciata dalla Turchia contro la Siria del Nord e che ha interessato alcune zone in cui sono presenti anche truppe americane. Gli attacchi turchi infatti hanno messo a repentaglio anche la vita del personale americano, che pare non fosse stato avvisato preventivamente dell’avvio delle manovre, oltre ad aver causato vittime tra la popolazione curda.
L’attacco lanciato dalla Turchia è stato condannato dagli Stati Uniti, che tramite il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale, John Kirby, hanno sottolineato come queste operazioni militari rappresentino una minaccia per i civili, già costretti a vivere in una situazione di rischio, per il personale militare americano e per la tenuta della missione anti-Isis.
Pù di una ramanzina
La reazione degli Stati Uniti però non si è limitata ad un semplice ammonimento verbale. Con un tempismo di certo non casuale, a inizio dicembre il dipartimento del Tesoro ha imposto delle sanzioni contro Sitki Ayan, uomo d’affari turco accusato di aver facilitato la vendita di petrolio iraniano in violazione delle sanzioni americane. Secondo il Dipartimento, Ayan avrebbe usato la sua rete di conoscenze per vendere il greggio prodotto in Iran a Emirati, Europa e Cina, garantendo così ingenti ricavi alla Repubblica islamica.
Le sanzioni americane hanno quindi colpito anche la compagnia Asb Group con sede a Gibilterra, che sarebbe stata usata da Ayan per trasferire il denaro alle Forza Quds (parte del Corpo delle Guardie della rivoluzione) e la Sam Petrol, azienda detenuta sempre da Ayan e attiva da anni in Iran, soprattutto dopo la firma nel 2010 di un accordo con il ministero del Petrolio iraniano per l’esportazione di gas in Europa attraverso la Turchia.
Sitki Ayan non è un imprenditore qualunque: l’uomo fa parte della stretta rete di amicizie del presidente Recep Tayyip Erdogan, con cui può vantare un legame di amicizia che risale ai tempi dell’adolescenza. Entrambi hanno frequentato la stessa scuola religiosa e la loro relazione si è andata rafforzando negli anni, con benefici reciproci. Il rapporto tra Erdogan e Ayan era tornato al centro dell’attenzione pubblica nel 2017, quando il leader dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu aveva accusato il presidente di aver spostato all’estero parte del suo patrimonio con l’aiuto dell’imprenditore.
Le sanzioni contro Ayan e le sue compagnie sono quindi un chiaro messaggio al presidente Erdogan, che fa da tempo pressioni sugli Stati Uniti perché mettano fine alle inchieste sulle responsabilità di uomini d’affari e istituti di credito turchi presumibilmente coinvolti nella vendita di petrolio iraniano in violazione delle sanzioni americane.
Il nodo F-16
Negli stessi giorni però gli Stati Uniti hanno fatto un passo avanti verso la vendita dei caccia F-16 alla Turchia. Ankara aspetta da tempo di poter avere i nuovi aerei militari e i kit di aggiornamento per quelli che sono già in suo possesso prima che diventino obsoleti, ma la vendita è stata più volte messa in discussione da Washinton e in particolar modo dal Congresso, a cui spetta il compito di dare luce verde alla transizione.
A inizio dicembre qualcosa però si è mosso. Dal budget per la Difesa Usa sono state eliminate quelle clausole che limitavano l’uso degli F-16 in alcuni teatri regionali, tra cui l’Egeo e la Siria, ammorbidendo di fatto la posizione dell’amministrazione Biden nei confronti della Turchia. A far propendente il presidente americano verso un cambio di posizione sono da una parte la necessità di mantenere buoni rapporti con la Turchia, visto il suo ruolo nel dossier ucraino, e dall’altra la volontà di agevolare l’entrata di Svezia e Finlandia nella Nato.
L’adesione dei due Paesi scandinavi nell’Alleanza è ancora in stallo a causa del veto della Turchia, che oltre ad aver avanzato richieste specifiche nei confronti di Stoccolma e Helsinki ha anche sfruttato la situazione per aumentare le pressioni sugli Usa.
Lo scontro con la Grecia
La cancellazione di queste due clausole però non è di per sé sufficiente. La decisione finale spetta al Congresso e alcuni deputati continuano ad opporsi alla vendita degli F-16 alla Turchia a causa della sua assertività in Siria del Nord e nell’Egeo. Il timore, condiviso anche da Atene, è che Ankara renda più frequenti le incursioni nei cieli della Grecia una volta ottenuti gli F-16, aumentando così la tensione nel mar Egeo.
La Turchia infatti continua a lanciare avvertimenti alla controparte greca, con il ministro degli Esteri Çavuşoğlu che ha di recente avvertito che il Paese è pronto a fare «ciò che è necessario» per fermare la militarizzazione delle isole greche vicine alla costa turca.
Per tutta risposta, Atene ha inviato una lettera agli alleati Nato e all’Unione europea per chiedere una presa di posizione netta contro il presidente Erdogan, i cui commenti sono stati definiti «insulti inaccettabili e non provocati contro il popolo greco». Dall’Unione europea non è ancora arrivata una risposta alla missiva di Atene, ma in compenso il Parlamento Ue si è espresso nei giorni scorsi sul memorandum siglato nel 2019 tra Turchia e Libia per delimitare le zone economiche esclusive, chiedendone la cancellazione.
Un segnale accolto positivamente dalla Grecia, ma non sufficiente per limitare l’espansione della Turchia nel Mediterraneo. Atene aspetta da tempo un sostegno maggiore da parte dell’Unione, ma non tutti gli Stati membri sono disposti a mettere a repentaglio i loro rapporti con la Turchia. E gli Usa sembrano essere dello stesso avviso.