A pochi passi dal Duomo, all’interno del Leica Store, si trova uno spazio espositivo dedicato esclusivamente alla fotografia autoriale, una piccola galleria in cui aggirarsi tra gli scatti che hanno inciso e segnato più profondamente la storia dell’immagine. Il tributo a un mestiere oggi sempre meno di nicchia e che risulterebbe, a torto, accessibile a chiunque consiste proprio nel restituirgli un processo, uno sviluppo, dei nomi, delle tecniche, ma soprattutto degli strumenti – le macchine fotografiche, ormai soppiantate dagli smartphone.
Dal 25 gennaio all’8 aprile 2023, la protagonista sarà Carla Cerati (1926-2016): trenta diapositive selezionate accuratamente da Elena Ceratti, Fabio Achilli e Denis Curti. Oltre ai paesaggi e ai ritratti di nudo femminile, che rappresentano la sua produzione meno conosciuta, troveremo i caroselli dedicati alle esperienze della sua epoca – il teatro, il rapporto con poeti e scrittori, la politica, i rituali mondani. «Io credo che Carla Cerati sia stata la fotografa che, più di altri, ha saputo restituire una precisa dimensione di “quantità umana”. Perché ne faceva parte e perché le apparteneva», ha dichiarato Curti.
Ma quando un fotografo diventa un artista? Cosa lo rende tale? La questione si è fatta centrale all’interno dell’epoca in cui viviamo dato che ciascuno di noi è diventato, a suo modo, un autore di contenuti. Carla Cerati, che quest’anno avrebbe compiuto novantasette anni, si è limitata a fotografare, distrattamente e casualmente, la società di cui faceva parte, gli amici di cui si circondava, i volti e i luoghi che le solleticavano un senso di urgenza espressivo. Oggigiorno, chiunque di noi abbia un account Instagram potrebbe tranquillamente dichiarare di svolgere lo stesso tipo di processo.
Documentiamo le esperienze in cui inciampiamo e le pubblichiamo, nella speranza o nella convinzione che scatenino una reazione, che colgano un movimento sotterraneo, gusti inaspettati: dall’ossessione nei confronti dei selfie all’irresistibile fenomeno del fotografare ciò che si mangia, dalle immagini di corpi scultorei e perfetti all’estetica che sembra essersi imposta adesso – più fatiscente, deteriorata e scomposta – ci siamo trasformati tutti in attenti osservatori della realtà, più o meno creativi, più o meno originali. Se anche ci limitiamo a seguire un trend, nessuno può dirsi immune alla circospezione con cui ci si aggira all’interno delle proprie geografie fisiche, in attesa di un momento da immortalare nella sua unicità, nella sua riproducibilità.
Carla Cerati non segue scuole, non ottiene diplomi o certificati scritti. Rinuncia all’Accademia di belle arti di Brera per ottemperare così alle richieste dei genitori, e si sposa. Scopre la fotografia per passatempo, per riempire gli spazi, improvvisamente vuoti, subentrati a seguito dell’accantonamento del mestiere di sarta. Sono gli anni Sessanta e lei è poco più che trentenne. Si concentra sulle famiglie che frequentano la casa dove abita insieme al marito, sui loro figli, servendosi di una macchina fotografica riscattata dalla collezione del padre.
Subentra, di nuovo, l’interrogativo spinoso: cosa rende un artista ciò che è? La passione? Il tributo economico, ovvero la certificazione di qualcuno disposto a pagare e a monetizzare un talento? Il successo? L’inserimento entro un’enclave, dei codici e un genere? Forse tutte queste cose insieme. Ma Carla Cerati aggiunge dettagli apparentemente irrisori e tuttavia essenziali, imprescindibili: la curiosità famelica e senza nome che la spinge a recarsi quasi ogni giorno nella sede della libreria Einaudi di Milano, in via Manzoni, dove conosce Umberto Eco, Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo, Pasolini, Calvino. L’attrazione che prova nei confronti del teatro, degli attori, dei palcoscenici, e che viene sancita definitivamente dai cataloghi intitolati Scena e Fuoriscena – apparsi solo nel 1991 nonostante le dipartite di Cerati nel mondo teatrale risalissero a vent’anni prima, quando si intrufola dietro le quinte della compagnia di Tadeusz Kantor, Eduardo, Strehler.
Ecco allora che Carla Cerati diventa artista non tanto nella maestria tecnica di certi scatti, ma piuttosto nella scelta di certi temi e dell’umanità che elegge in quanto rappresentativa della propria vita intima e artistica: da una parte, dunque, Culturalmente Impegnati alla galleria Il Diaframma di Milano, la mostra che esibisce gli intellettuali e i personaggi dell’élite culturale del tempo; dall’altra Mondo cocktail, pubblicata nel 1974 grazie ad Amilcare Pizzi, che ritraeva il beau monde della Milano da bere – abiti succinti, piume di struzzo e Martini – cogliendo così il culmine di un momento storico in declino: l’ultima, fatale convergenza degli intellettuali all’interno della vita pubblica, per cui un evento come l’inaugurazione della libreria Marco o il party della casa editrice Mondadori erano occasioni di slancio mondano alla pari della nuovissima apertura del negozio di arredamento di Nucci Valsecchi e Wally Rizzo. La cultura produceva iconicità e in qualche modo bisognava appartenervi, come dimostrano altri fotografi dell’epoca: Paolo Di Paolo e Slim Aarons.
Infine, è l’impegno esistenziale a definire un artista, che non può prescindere dall’impegno politico: si diventa documentaristi, anche se inconsapevolmente. Appaiono così le sequele di fotografie di Cerati sugli anni di piombo, sui cortei studenteschi, sul processo a Luigi Calabresi, sui nuovi quartieri urbani. E soprattutto il libro emerso dalla collaborazione con Franco Basaglia sulla condizione dei manicomi in Italia, a cui partecipano anche la moglie dello psichiatra e Gianni Berengo Gardin, intitolato inquietantemente Morire di classe.
Che la mostra si chiami Forma e movimento è forse il tentativo ultimo di rispondere alla domanda posta all’inizio: un fotografo è un artista quando contiene in sé l’esercizio esteriore della sua professione e il tumulto interno della vocazione.