Lo Spazio di via Lazzaro Palazzi a Milano è stato un luogo ricco di storie e oggi raccontarle fa rima con ritrarre un’epoca recente, di cui in effetti si è parlato molto poco. Un gruppo di artisti nel 1989 diede vita a questo luogo dove esporre le proprie opere, in maniera libera e autonoma dal sistema delle gallerie commerciali. Non necessariamente in conflitto con quel sistema rodato e a suo modo fruttifero, ma proprio con l’intenzione di dire e fare altro.
Gli artisti in questione erano Mario Airò, Vincenzo Buonaguro, Matteo Donati, Stefano Dugnani, Giuseppina Mele, Chiyoko Miura, Liliana Moro, Bernhard Rüdiger, Andrea Rabbiosi, Antonello Ruggieri, Adriano Trovato, Francesco Voltolina e Massimo Uberti, quasi tutti legati al professore Luciano Fabro, cattedra a Brera e grande stimolatore di un metodo artistico senza barriere né classificazioni.
E loro avevano urgenza di esprimersi, di confrontarsi e di creare, ma anche di trovare e lanciare stimoli nuovi, di analizzare la realtà presente, di trovare una propria strada in un mondo che stava cambiando e che offriva soltanto orizzonti incerti. Così quel luogo in via Lazzaro Palazzi divenne fucina creativa con quella rivista tiracorrendo, autoprodotta, sempre condivisa, in ogni sua parte discussa dagli artisti redattori, a raccontare il loro pensare e il loro fare, che poi si traduceva in mostre collettive aperte alla città. Milano a quel tempo era un posto strano, viene raccontata come terra del disimpegno, ubriaca di prosecco e affogata nelle tartine delle inaugurazioni, incantata dai soldi della moda e del design. Ma non era vero, non era questo Milano tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Come ha scritto Angela Vettese il gruppo di via Palazzi «parlava il linguaggio del come stare nel mondo». Altro che disimpegno!
Scritti, disegni, installazioni e tutti i numeri della rivista tiracorrendo sono stati donati dagli artisti stessi al Museo del Novecento di Milano con l’idea di inventariare, storicizzare, custodire ed esporre al pubblico la storia dello Spazio di via Lazzaro Palazzi. Quasi tre anni di lavoro hanno portato alla pubblicazione di un libro molto denso e interessante su due aspetti di questa vicenda: la storia del collettivo artistico e quella dell’archiviare il presente. Cioè un passato molto vicino per “passare alla storia”, fatto di documenti donati dagli artisti partecipi al processo di archiviazione. Fantastico: un po’ come avere Tutankamon che ci decifra i geroglifici della sua epoca!
Un’iperbole, naturalmente. Ma di quell’epoca forse davvero non abbiamo più i codici di accesso. Perché è stata bistrattata e soprattutto etichettata come l’età superficiale, paninara, da bere e attenta solo ad accrescere il capitale personale. Dell’afflato politico che aveva caratterizzato il decennio precedente sembra non esserci più nulla. Eppure. Eppure non è così.
E il libro in questione, “L’archivio come opera in divenire. Lo Spazio di Via Lazzaro Palazzi al Museo del Novecento di Milano”, edito da Electa, lo racconta attraverso una serie di saggi. Tra cui quello di Angela Vettese, che riprendiamo: «Tutto era ancora politica, epitome dello slogan anni Settanta per il quale “Il personale è politico”», scrive, «la mostra che diede il via all’idea della rivista e dello Spazio si intitolò “Politica del, per o riguardante il cittadino”. Nel comunicato stampa redatto dagli artisti si leggeva che in quanto portatrice di “ismi e orgasmi […] l’avanguardia non è più proponibile”, se intesa come ciò che offre visioni dogmatiche ed esaltate».
Vettese prosegue tratteggiando il liquido amniotico in cui questo gruppo ha potuto nascere, tra ricchezza apparente o comunque solo per pochi, l’arrivo dell’AIDS a squassare gli animi, modificando per sempre abitudini sociali, in un territorio, anche artistico, che prediligeva il singolo piuttosto che il collettivo, dimostrando ben più adatto alla sensibilità del momento «l’autobiografico, frammentario, complesso e mai definitivo racconto di Roland Barthes nel suo “Frammenti di un discorso amoroso”». Il 1992 è alle porte e Tangentopoli darà un altro colpo al tentativo di assestamento di quegli anni di trasformazione: si cambia pelle e Milano è proprio al centro del ciclone. O forse è immersa in un brodo primordiale che ribolle di vita, capace di esprimersi in forme diverse, fortemente e in maniera per nulla disimpegnata.
Giulia Kimberly Colombo propone poi un salto quantico: oggi, gli stessi protagonisti, sul proprio archivio, in dialogo con lei. Almeno tre piani, quello storico, quello attuale, quello personale. Così le emozioni vanno a finire in un archivio che si caratterizza per essere continuamente in divenire. Chi l’ha detto che gli archivi devono stare chiusi a prendere polvere nei seminterrati di qualche istituzione? Chi l’ha detto che devono essere luoghi di conservazione di un passato che non parla la lingua del presente? «Le voci dei protagonisti rappresentano l’elemento attuale e vitale dell’Archivio dello Spazio di Via Lazzaro Palazzi, in sintonia con una concezione dell’artista che lo vede produttore di cultura e pensiero, e nella convinzione di una forte valenza critica attribuita alla testimonianza orale di chi si è reso protagonista di quella esperienza», scrive Kimberly Colombo a introdurre uno zibaldone delle voci degli artisti dello Spazio, trent’anni dopo.
Così Mario Airò spiega: «Tutti noi avevamo visto la mostra Chambres d’amis a Gand (curata da Jan Hoet nel 1986, era una grande mostra diffusa, diventata celebre, dove le opere di 52 artisti internazionali vennero presentate in 58 abitazioni private, portando l’arte fuori dalla sede istituzionale del museo, ndr) ed eravamo affascinati dall’idea di poter lavorare in uno spazio non consono, anche perché in quel periodo l’arte che si vedeva nelle gallerie era molto legata all’oggetto-feticcio o, in pittura, al simulacro».
E poi Liliana Moro: «Luciano Fabro in quegli anni lavorava sugli ambienti e sull’idea di uno spazio percepito, sentito. Questa visione implicava una relazione romantica tra spazio e individuo, dove il “politico” era inteso come un “luogo” concettuale che il soggetto costruisce per sé. Lo spostamento che abbiamo fatto con la mostra Politica è stato dire che il luogo è anche ambiguo: nelle strade di Novi Ligure c’erano anche i cittadini, le macchine parcheggiate e le opere erano in relazione con il contesto urbano».
Cita poi la mostra di Gand per mostrare quale fosse lo sguardo di chi, con lei, diede vita allo Spazio: «Una delle critiche fondamentali che rivolgemmo agli artisti di quella mostra riguardava il fatto che spesso usassero la casa come una galleria. Provavamo un particolare interesse per le ricerche di artisti come Reinhard Mucha, Thomas Schütte o Juan Muñoz, per i quali il luogo era importante quanto la forma dell’opera. Questa era per noi la differenza: il luogo politico non è solo concettuale. Un’altra differenza generazionale era che i nostri maestri erano sicuramente degli utopisti.
Noi invece eravamo in pieno liberalismo, con la guerra del Golfo che iniziava, l’esplosione di Chernobyl… Ci fu un ritorno al reale, biologico, chimico, che era violento, e per questo per noi pensare al “politico” significava anche pensare anche al “luogo”». Eccolo, il luogo: lo Spazio di via Lazzaro Palazzi. E il politico è l’oggi: storicizzare il presente o meglio rendere continuamente vivo e attuale un archivio, è un gesto politico, un atto poetico, come dicevano gli artisti dello Spazio, “un atto poetico come atto concreto direttamente sulla realtà che può portare a trasformare il mondo”.