Domenica scorsa sulla prima pagina del New York Times campeggiava la copertina del primo romanzo di uno scrittore italiano, Giuliano da Empoli, che ha fatto molto discutere in Francia, dove è stato pubblicato da Gallimard, ha venduto più di 400 mila copie, ha vinto il Gran premio del romanzo dell’Académie française, è arrivato a un soffio dal vincere pure il Goncourt e da alcuni mesi monopolizza pagine culturali e talk show, tanto in tema di letteratura quanto di attualità politica. Il romanzo si intitola infatti «Il Mago del Cremlino», parla della Russia di Vladimir Putin e in qualche modo anche della guerra in Ucraina (sebbene sia uscito proprio alla vigilia dell’invasione del 24 febbraio). In Italia è stato pubblicato da Mondadori, con ripercussioni assai meno clamorose.
Il caso sollevato all’estero è comunque molto curioso. Assessore alla cultura di Firenze nella giunta di Matteo Renzi e suo consigliere politico fino ai tempi di Palazzo Chigi, autore di numerosi saggi («Gli ingegneri del caos», uscito nel 2019 e dedicato ai burattinai del populismo digitale, è stato tradotto in dodici lingue), da Empoli è infatti, politicamente e culturalmente, quanto di più lontano si possa immaginare dagli intellettuali filo-putiniani che affollano giornali e talk show italiani. Eppure, tra tanti riconoscimenti ed elogi, il libro ha raccolto anche l’accusa di sposare e rilanciare proprio le tesi del regime. In particolare, il New York Times sembra accreditare il sospetto che il successo del romanzo si debba a un atteggiamento fin troppo comprensivo per le ragioni di Putin da parte dell’establishment politico, diplomatico e culturale francese.
In questa prospettiva, persino i non pochi giudizi entusiasti citati nell’articolo, e non da parte degli ultimi arrivati, assumono un significato ambivalente: dall’attuale presidente del Consiglio Élisabeth Borne, che dice di averlo molto apprezzato, al suo predecessore Edouard Philippe, che lo definisce una grande «meditazione sul potere»; dall’ex ministro degli Esteri Hubert Vedrine, secondo il quale è «incredibilmente credibile», alla decana dell’Académie française Hélène Carrère d’Encausse (presentata nell’articolo come una specialista in storia russa «che ha condannato la guerra ma in passato ha difeso Putin») la quale dice di non andare a un pranzo o a una cena senza portarlo in regalo, e lo definisce «una chiave per capire Putin».
All’ambiguità di tale sfilza di elogi si accompagnano poi le critiche e le accuse più esplicite da parte di alcuni studiosi, fino alla sprezzante definizione di «Russia Today for Saint-Germain-des-Prés» – battuta decisamente sopra le righe, almeno per chiunque abbia letto il libro – pronunciata dalla professoressa Cécile Vaissié.
Si dirà che 400 mila copie vendute, gli elogi dei vertici dell’accademia, delle istituzioni e della politica, il successo internazionale di pubblico e di critica valgono bene qualche battuta sferzante, per quanto la si possa considerare ingenerosa o infondata. Del resto, trattandosi di un romanzo che fa parlare i protagonisti del regime, e in particolare i suoi spin doctor, tanto il confine tra finzione letteraria e analisi politica quanto quello tra descrizione realistica e adesione interiore, alla fine dei conti, non può non dipendere da un giudizio del tutto soggettivo.
E poi, soltanto con un po’ di buona volontà, lo stesso da Empoli potrebbe utilizzare a suo vantaggio anche le osservazioni più malevole: nulla come la caricatura del propagandista di Putin, nel momento in cui il presidente russo porta avanti la più sanguinosa guerra di aggressione della storia recente, potrebbe riaprirgli in Italia le porte di giornali e università, salotti televisivi e cenacoli intellettuali. E forse persino fargli abbonare la passata vicinanza a Matteo Renzi.
Ma ho il forte sospetto che non ne approfitterà.