Scudo democraticoVotare è uno strumento di difesa contro l’autoritarismo (e il trumpismo globale)

La scrittrice turca Ece Temelkuran racconta come gli autocrati di oggi, da Erdogan a Putin e tutti gli altri, abbiano sostituito la violenza con la disinformazione e la post-verità. «È una crisi che non si risolverà facilmente, ma è una crisi che il mondo liberale può superare se ci sarà più giustizia sociale»

LaPresse

Questo è un articolo del numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review 2022 ordinabile qui.
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Quando nel novembre del 2020 l’allora presidente americano Donald Trump affermò che gli era stata rubata la vittoria nelle elezioni per la Casa Bianca, la scrittrice e analista politica Ece Temelkuran tracciò un parallelo con ciò che era accaduto nel suo Paese, la Turchia. «Datemi retta, è un tentativo di colpo di Stato», scrisse in un editoriale per il Guardian. «Se tutto questo stesse avvenendo in Turchia, i giornali di tutto il mondo non esisterebbero un attimo nel definirlo così». Temelkuran parlava con cognizione di causa. Lei aveva vissuto il tentativo di golpe del luglio 2016 contro il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e aveva poi lasciato il Paese per evitare la repressione che ne era seguita. E tre anni dopo aveva pubblicato il libro Come sfasciare un Paese in sette mosse. La via che porta dal populismo alla dittatura (la traduzione italiana è stata pubblicata da Bollati Boringhieri), un saggio che spiega il percorso che può far scivolare un Paese democratico nell’autoritarismo.

Temelkuran è nata in una famiglia di politici. Sua madre, da studentessa negli anni Settanta, era stata un attivista ed era stata imprigionata dopo un golpe militare. La salvò un giovane avvocato che sarebbe poi diventato suo marito. A sedici anni Temelkuran iniziò a scrivere per una rivista femminista e finì poi per diventare una delle più lette analiste politiche della Turchia. Ed è tuttora un editorialista di prima fila, anche se ora vive ad Amburgo, in Germania, dove è fellow del programma Future of Democracy del New Institute. In questa intervista, Temelkuran parla delle minacce a cui è sottoposta la democrazia in Occidente e nella sua Turchia.

Da quando ha pubblicato il suo libro “Come sfasciare un Paese in sette mosse” sono successe un po’ di cose. Trump non è più al potere. E neppure Boris Johnson, che è stato uno dei grandi sostenitori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Lei come vede il mondo attuale?
Penso che ci siano troppo ottimismo e troppo pessimismo. Gli ottimisti pensano che liberandosi di Johnson o di Trump tutto tornerà a posto per quello che concerne la democrazia – che dovremo giusto sistemare qualche rotella della macchina democratica e che tutto andrà bene. Ma io penso che si tratti di una crisi più profonda. Anzi, di un intreccio di crisi, che dovremmo osservare più a fondo. La crisi della democrazia e molto intrecciata con la crisi del capitalismo. Non ci sono vie di uscita a meno che non affrontiamo il tema dell’uguaglianza sociale.

Lei sta dicendo che la democrazia nella sua forma attuale è morta perché il capitalismo è essenzialmente incompatibile con la democrazia. Può spiegarcelo meglio?
I movimenti populisti di destra non sono comparsi d’improvviso negli ultimi dieci anni. Dobbiamo tornare agli anni Ottanta per capire che cosa stia davvero succedendo nel mondo di oggi, specialmente per ciò che riguarda la democrazia. La democrazia si basa su una fondamentale promessa di uguaglianza e giustizia sociale. Il capitalismo non promette giustizia sociale. Se le persone non sono uguali in termini reali – e cioè dal punto di vista finanziario ed economico – come si può promettere loro un’uguaglianza come cittadini?

Perché crede che il capitalismo sia in conflitto con la giustizia sociale?
Si pretende di credere che tutti i diritti di cui godono i lavoratori – le domeniche libere, la giornata lavorativa di otto ore, eccetera – ci siano grazie al capitalismo. Di fatto, però, tutto ciò che le classi lavoratrici hanno raggiunto o si sono guadagnate è giunto dopo un lotta lunga e dura contro le classi dominanti. La depoliticizzazione della società negli anni Settanta e Ottanta ha contribuito a una infantilizzazione dei cittadini – e alla loro percezione della politica come una “roba sporca”. Questa massiccia depoliticizzazione ha contribuito alla crescita dei movimenti populisti di destra a cui assistiamo ora. È per questo che ci sono queste masse di persone che credono che Trump sia il salvatore o che la Brexit renderà di nuovo grande l’Inghilterra. Un’altra conseguenza è che siamo stati indotti ad avere paura di espressioni come “socialismo”, “socialdemocrazia”, “regolamentazione”, “regolamentazione del sistema finanziario”. Dopo gli anni Settanta, queste parole sono diventate tabù. Siamo arrivati a un punto in cui non ci permettiamo neppure di pensare a un sistema migliore del capitalismo. È come se la fine del capitalismo dovesse per forza condurre alla fine del mondo.

Lei usa la parola “fascismo” per descrivere alcune realtà politiche in Occidente. Questa parola ha una risonanza storica pesante. Come mai la utilizza?
Perché penso che si debba usare quella parola. Siamo stati indotti a pensare che il fascismo sia stato sepolto nei campi di battaglia della Seconda guerra mondiale. E, certo, la sua versione che indossava stivali e uniformi è stata sepolta. Ma il fascismo non è solo quello che veste uniformi e stivali e che marcia con il passo dell’oca. Se la libertà di espressione, la libertà di organizzazione e i diritti delle classi lavoratrici vengono oppressi, ecco che questo contribuisce a costruire il fascismo. In Paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, l’establishment democratico è abbastanza solido per proteggere se stesso. Ma in Paesi in cui l’establishment politico e democratico non è abbastanza maturo, allora si può vedere un’oppressione vera e propria. E non c’è dubbio alcuno che questi – in Turchia, in India e in altri numerosi Paesi – siano dei regimi che possiamo tranquillamente chiamare fascisti.

Ma le democrazie parlamentari non stanno diventando improvvisamente hitleriane, vero?
Non ne hanno bisogno. Ai tempi di Hitler, era inevitabile essere oppressivi e violenti perché c’era un enorme movimento sindacale in Germania e nel resto d’Europa, un movimento socialista. Oggi, non c’è niente di simile. Quindi, perché usare la violenza? Possono usare la post-verità o i social media per manipolare le persone, per diffondere disinformazione e così via. Se riusciamo a rendere più progressiste le politiche globali, allora possiamo liberarci di questi movimenti. Al momento, il centro dello spettro politico è vuoto. I politici centristi non hanno un racconto grazie al quale mobilitare e organizzare le persone. C’è un vacuum. Prendiamo, ad esempio, il presidente francese Emmanuel Macron. Come mai si trova in quel posto? Perché tutti avevano una gran paura della leader di estrema destra Marine Le Pen. Per tutto l’ultimo decennio, come minimo, votare è diventato uno strumento per proteggerci dal peggio. Ma questa non è politica. È istinto di sopravvivenza. A meno che il centro non allarghi le braccia verso la sinistra e i progressisti, non c’è via d’uscita, nel mondo, per la democrazia.

Per lungo tempo, la Turchia è stata un modello quando si parlava di transizione alla democrazia del mondo islamico. E adesso che cosa sta succedendo in quel Paese?
È una forma di dittatura su larga scala. Ma adesso queste dittature non hanno bisogno di usare la violenza. Ora usano un diverso strumento, che è la rete molto ampia di “denaro politico” che abbraccia l’intera nazione. Perfino i più insignificanti simpatizzanti del partito ricevono un po’ di quel denaro. E fanno una buona vita. Se sei parte del partito, o del suo ambiente, hai una vita. Altrimenti, non solo è impossibile la tua esistenza economica, ma non puoi neppure esercitare i tuoi diritti fondamentali di cittadino. Ci sono cittadini di prima classe che sono condiscendenti con il partito e con Erdoğan. E poi ci sono gli altri. E, come ha detto Erdoğan, se questi altri se ne vanno per lui è solo una buona cosa. E, in effetti, se ne stanno andando. In questo momento sta avvenendo un’enorme fuga di cervelli dalla Turchia. È un’altra storia tragica. Medici, infermieri, persone istruite, docenti: se ne stanno andando tutti.

E come se ne esce?
Il modo per uscirne è mettersi insieme: è un tentativo che le forze politiche turche stanno facendo in modo del tutto inadeguato. Tutti i partiti di opposizione, al di là delle differenze politiche che ci sono fra loro, devono unirsi e, nell’interesse della democrazia, partecipare alle elezioni.

© 2022 THE NEW YORK TIMES COMPANY AND FARAH NAYERI

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