Prima di bombardare i musei, in Ucraina i russi li hanno saccheggiati. Questa appropriazione imperialistica, questo colonialismo culturale non sono nuovi. Lo hanno fatto per secoli. L’icona Vladimirs’ka su cui giuravano gli zar era stata donata da Costantinopoli a Kyjiv, dove ha preso il nome dal monastero di Vyshhorod. L’ha rubata lo zar Anrej Bogoliubskiy. Novecento anni dopo, le truppe di Vladimir Putin hanno spogliato il patrimonio delle aree che hanno temporaneamente occupato: Kherson, Mariupol, Melitopol, Kakhovka. Sono i più gravi furti d’arte dai tempi della Seconda guerra mondiale, quando a perpetrarli erano i nazisti.
Depredazioni, e devastazioni. I missili del Cremlino hanno colpito quartieri residenziali, infrastrutture e linee elettriche, ma anche siti storici. Più di duecento sono stati danneggiati, secondo le ultime verifiche dell’Unesco: 245 in totale, tra cui centoquattro luoghi di culto, diciotto musei, diciannove monumenti, undici librerie, ottantatré edifici di valore storico. A Ivankiv, a Nord della capitale, si sono perse tra le fiamme molte opere di Mariya Pryymachenko, artista elogiata da Picasso all’Expo del 1937 a Parigi. Sotto le tinte della vita rurale, traspariva l’orrore stalinista: il genocidio e le deportazioni. Un uomo ha rischiato la vita per salvarne alcune. Pryymachenko è più che mai un simbolo di pace globale.
Come per i pezzi rubati, oltre duemila stando agli inventari ancora da finire di compilare, però il conteggio reale è più alto. L’Ukrainian Institute ha fondato un progetto online intitolato «Cartoline dall’Ucraina». Mostra, con un accostamento fotografico tra il «prima» e il «dopo», le conseguenze del passaggio degli invasori. Ha censito 530 casi in tutto il Paese; nel Donbas la cronologia parte dal 2014, antefatto della guerra di oggi. È stridente il contrasto tra il primo scatto, dai portali turistici o esterni giorno a cui siamo abituati esplorando per gioco le città con Street View, e il secondo. Crateri, detriti, palazzi sventrati e ridotti a scheletri inceneriti.
«La città che un tempo custodiva la memoria è ridotta essa stessa a un ricordo», recita la conclusione della scheda su Mariupol. Il suo museo di Arte e Archeologia era frequentato da quattromila studenti dell’università. Inaugurato nel 2016, il 18 aprile è stato centrato dall’artiglieria nemica. Quella formula, da «luogo di memoria» a memoriale a cielo aperto dei crimini di guerra, ricorre nelle cartoline di troppi altri luoghi. È una aperta violazione dei trattati internazionali – tra cui la Convenzione dell’Aia del 1954 per la Protezione del patrimonio culturale, firmata da Mosca – anche la rapina di manufatti.
Le forze armate della Federazione si sono ritirate da Kherson a novembre. Quando gli ucraini sono rientrati in città, hanno scoperto che prima di andarsene i nemici avevano svuotato il museo regionale. Il New York Times ha raccontato un’operazione organizzata come un assalto militare: veicoli in attesa di essere caricati, soldati intenti ad avvolgere le opere in lenzuola per prepararle al trasporto, agli ordini di «esperti» che indicavano loro quelle più preziose. L’amministrazione ucraina accusa i russi d’aver sottratto quindicimila reperti. Si tratterebbe del più vasto furto collettivo d’arte dai tempi della Seconda guerra mondiale.
C’è un tornante della Storia in una delle cartoline da Kharkiv. Il museo d’arte, un secolo fa, esponeva Albrecht Dürer, Pieter Bruegel il Vecchio, Antony van Dyck, Hendrick Goltzius, Luca Giordano, François Boucher. I sovietici non inclusero la collezione nei piani d’evacuazione, allo scoppio del conflitto. Il Terzo Reich trasferì in Germania una piccola parte del patrimonio; il resto bruciò tra le fiamme appiccate prima della loro ritirata nel 1943. Nel febbraio 2022, come ottant’anni prima, i custodi sono dovuti fuggire. Hanno fatto il possibile per salvare i reperti, mentre le finestre andavano in frantumi e la facciata veniva deturpata dagli invasori.
Nello stesso oblast, i russi hanno “festeggiato” a colpi d’artiglieria i trecento anni dalla nascita del filosofo Hryhorij Savyč Skovoroda, bombardando la cittadina di Skovorodynivka, dove il poeta aveva vissuto. Tra i tesori del museo locale, ridotto nelle condizioni evidenti dalla foto di questo articolo, c’era l’iscrizione sulla tomba di Skovoroda: «Il mondo ha provato a prendermi, ma non c’è riuscito». Che poi è anche una possibile didascalia, o un epitaffio, ai fallimenti dell’armata di Putin dal 24 febbraio a ora. Buona parte delle opere, fortunatamente, era già stata messa al sicuro.
A Melitopol, occupata dai primi giorni di marzo, è stata chiara la premeditazione. La regia, anzi, dietro le spoliazioni. I testimoni hanno riferito di un uomo dal camice bianco, scortato da soldati russi, che con guanti e pinzette ha prelevato dalle teche i preziosi, tra cui manufatti d’oro dell’impero Sciita di più di duemila anni fa. Reperti simili erano già nelle mire di Mosca, se nel 2014 ha cercato di fare pressioni internazionali sull’Olanda durante un prestito all’estero.
Dipinti trafugati a Mariupol sono stati avvistati nei musei della Crimea, come gli ori di Melitopol. Lo stesso è accaduto per pezzi di Kherson, del miniaturista Ivan Pokhytonov e di Heorhii Kurnakov, tra gli altri. È la prassi dopo l’annessione illegale della penisola nel 2014. L’Interpol, da allora, è sulle tracce di cinquantadue tele sparite. Spesso ricompaiono nelle sale di Sebastopoli, o nella Russia continentale. In otto anni, il Cremlino ha distrutto o rimosso parte del patrimonio della regione. Dove ha potuto, ha sostituito gli originali con delle copie, con la scusa di “proteggerli”.
Il tentativo è quello di riscrivere il passato, di manipolare la memoria. Si provano a falsificare secoli di multiculturalismo, in nome delle bugie propagandistiche che hanno alimentato le pretese russe sulla penisola. Le statue scomparse dai parchi, i libri strappati alle biblioteche, le opere non sono “solo” crimini da ricettatori, spinti dalla cupidigia di fare soldi facili sul mercato nero. Scaturiscono da una visione imperialista. I rascisti hanno bisogno delle appropriazioni culturali per inventarsi un passato grandioso come leva geopolitica.
La Rus’ di Kyjiv, lo Stato che esisteva nel Medioevo nei territori ucraini, è più antico di Mosca. È la culla del Cristianesimo ortodosso, la madre delle città russe. Un’eredità che il Cremlino spaccia per sua. Come “La cronaca di Velychko”, la storia dei cosacchi ucraini, che oggi si trova nell’Archivio statale russo e solo qualche anno fa è stata pubblicata per intero. A essere precisi, anche il nome «Russia» è fregato all’Ucraina, cioè alla Rus’ di Kyjiv, adottato di punto in bianco il 22 ottobre 1721 dalla Moscovia di Piotr I.
Quelle radici portano all’Ucraina contemporanea, non all’impero posticcio e contraffatto di Putin, coi suoi ladri di sesta generazione. Per questo, le truppe hanno disseppellito persino le ossa di Grigory Potemkin, calandosi in una cripta. Roba da tombaroli. Al generale, nonché amante della zarina Caterina, si deve l’annessione del 1783 della Crimea. Ideologo dello sbocco su acque calde della madrepatria, la dottrina alla quale si è rifatto Putin nei suoi deliranti discorsi alla nazione.
È una guerra all’identità ucraina, ha detto più volte il ministro della Cultura, Oleksandr Tkachenko. Lo stesso annientamento che Mosca ha perseguito per secoli, sotto la dominazione zarista prima e sovietica poi. Durante l’Holodomor, la carestia artificiale di Stalin, le famiglie furono costrette a vendere i loro beni, scambiandoli per un pezzo di pane. È raro oggi avere un anello della bisnonna, per esempio. Anche quell’eredità venne estorta, per costrizione, ma stavolta Mosca non ci riuscirà. Il conflitto culturale l’ha già perso. Come ha concluso un servizio della Pbs, rubare gli emblemi del passato non basterà a riesumarlo.