Il nuovo anno era appena cominciato, che già bisognava registrare il primo femminicidio (a Pontedecimo di Genova, il 4 gennaio, nell’occasione seguito dal suicidio del femminicida). Anche nel 2022 la parola “femminicidio” era stata dolorosamente tra le più ascoltate e più lette, nei notiziari e nei commenti che li hanno seguiti: novantasette donne uccise “in ambito familiare o affettivo”, di cui cinquantasette per mano del loro partner o ex partner, secondo i dati del Viminale raccolti dal Servizio analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale, aggiornati al 18 dicembre (ma prima del cenone di Capodanno la lista si era allungata di altre quattro unità). Un tragico fenomeno che non accenna a ridimensionarsi, e una brutta parola impiegata per designarlo. Brutta anche a prescindere dalla realtà a cui si riferisce.
Nella parola “femminicidio” non convince, tanto per cominciare, la i che precede il confisso -cidio (dal latino caedo, “taglio, uccido”). Negli altri vocaboli formati con questo elemento la i si spiega come residuo di un genitivo: “suicidio” = uccisione di sé (sui); “regicidio” = uccisione del re (regis); “deicidio” = uccisione del dio (dei); “parricidio” = uccisione del padre (patris); “matricidio” = uccisione della madre (matris); “infanticidio” = uccisione di un bambino (infantis); “fratricidio” = uccisione del fratello (fratris), usato anche per l’uccisione della sorella in luogo del più raro “sororicidio” (sororis), mentre è registrato dai dizionari ma pressoché inutilizzato “figlicidio” = uccisione del figlio (filii). A conferma che le realtà più insolite non hanno un nome o, se lo hanno, non viene preso in considerazione.
Un caso solo apparentemente dissimile è rappresentato dalla parola più comune e generica di tutte tra quelle appartenenti a questa luttuosa famiglia, “omicidio”, composta contraendo il genitivo hominis e attaccando il confisso direttamente al tema.
In assenza di un genitivo maschile latino, tuttavia, la i non ha senso, e infatti non compare, per esempio, in un’altra parola, di origine greco-antica, che dopo avere funestato il Ventesimo secolo si riaffaccia tenebrosamente nel Ventunesimo: “Genocidio” (termine coniato dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin che lo utilizzò per la prima volta nel 1944 nel suo libro “Axis Rule in Occupied Europe”), da génos (pronuncia ghénos) che al genitivo fa génous.
Perché allora la i di femminicidio? Il latino femina appartiene alla prima declinazione e il suo genitivo è feminae: coerenza morfo-etimologica vorrebbe pertanto che l’uccisione di una femina fosse in italiano un “femminecidio”. Ma decisamente questa parola non suona, tanto più che quella e, anziché alla desinenza -ae del genitivo femminile singolare, farebbe pensare a un nominativo plurale femminile (il che stranamente non accade alla i del genitivo singolare maschile).
In realtà la parola “femminicidio” – accolta nel nostro vocabolario sulla falsariga di omicidio, suicidio, parricidio eccetera – ha la sua incubazione in Inghilterra, dove fin dal 1801 era attestata la forma contratta femicide, modellata su homicide e usata genericamente per indicare l’uccisione di una donna.
La moderna connotazione del termine risale invece a mezzo secolo fa, in particolare ai lavori della sociologa femminista sudafricana (naturalizzata statunitense) Diana E. H. Russell che nel 1976, durante la conferenza da lei organizzata a Bruxelles per promuovere un Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, definì questo crimine come «l’uccisione di femmine da parte di maschi perché sono femmine»: ossia tutte quelle uccisioni di «femmine» (parola preferita a “donne”, perché possono esserne vittime anche bambine e adolescenti) che non avvengano per motivi occasionali, come per esempio un incidente o una rapina, ma siano conseguenza di una violenza di genere perpetrata da partner, ex partner o partner respinti, da famigliari maschi o da clienti di prostitute (infatti nel mondo anglosassone si parla anche di gendercide).
Alla parola “femminicidio”, attraverso il castigliano feminicidio, si è giunti con l’antropologa messicana Marcela Lagarde, che nei suoi studi sull’impressionante catena di uccisioni di donne che dalla prima metà degli anni Novanta ha insanguinato Ciudad Juárez, al confine del Messico con gli Stati Uniti, ha ripreso e approfondito la definizione messa a punto da Diana Russell, inquadrando il fenomeno nel più ampio contesto della discriminazione di cui è variamente vittima l’universo femminile. Un forte impulso all’utilizzo del neologismo è venuto in Italia dal saggio di Barbara Spinelli “Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale” (Franco Angeli, 2008), e da allora la parola è diventata di uso comune, a partire soprattutto dal linguaggio giornalistico.
Ma non tutti i femminicidi sono riconducibili a un rapporto del tipo vittima-carnefice, nell’ambito di una situazione socialmente penalizzante nei confronti della donna. Per questo l’accezione ristretta di Russell-Lagarde è stata variamente discussa e riformulata, e due studiose come le americane Jacquelyn Campbell e Carol Runyan, nel loro saggio “Femicide” (1998), hanno utilizzato la parola in relazione a «tutti gli omicidi di donne, indipendentemente dal movente o dallo status dell’autore».
E quindi – domanda – si ha un femminicidio anche quando il movente non è la discriminazione e l’autore agisce in preda all’ira per l’improvvisa degenerazione di una lite, o in uno stato di temporanea alterazione della coscienza in seguito a un eccesso alcolico o all’assunzione di droghe, oppure per fini abietti come riscuotere un’assicurazione sulla vita? O addirittura quando, per questi stessi o altri motivi, a uccidere una donna è un’altra donna, magari la sua partner, o ex partner o aspirante partner respinta? In tutti questi casi la vittima è una “femmina”, ma si potrà ancora parlare di “femminicidio”? Oppure è indispensabile che a uccidere sia un uomo? La questione resta aperta.
E resta un dubbio. Se l’uccisione di una donna per mano d’un uomo, in determinate circostanze, ha un nome particolare che la connota, rovesciando la situazione non avrà diritto a un nome particolare anche l’uccisione di un uomo per opera della partner (o ex o aspirante respinta) o da un membro femminile della sua famiglia? È vero che il fenomeno è meno frequente di quello a parti invertite, ma non del tutto assente: uno studio del 2013 (“The global prevalence of intimate partner homicide: A systematic review”, di Heidi Stöckl, Karen Devries, Alexandra Rotstein, Naeemah Abrahams, Jacquelyn Campbell, Charlotte Watts e Claudia Garcia Moreno, The Lancet, 382) stimava che ben il quaranta per cento delle donne uccise in tutto il mondo è vittima del proprio partner, mentre soltanto il sei per cento degli uomini uccisi cade per mano della donna.
Siccome però si calcola che l’ottanta per cento degli omicidi colpisca gli uomini, se questa percentuale corrisponde al vero significa che in termini assoluti il numero dei maschi uccisi dalle partner equivale a più della metà dei femminicidi. Pochi o un po’ meno pochi che siano questi sventurati, come qualificare il crimine di cui sono vittime?
Se a uccidere un uomo è la legittima consorte si parla di “uxoricidio”, che è un termine etimologicamente improprio in quanto uxor, in latino, è la moglie, e quindi l’uxoricida è in primo luogo il marito assassino; ma, in mancanza di meglio, il termine è usato estensivamente per qualificare l’uccisione del coniuge, non importa se femmina o maschio (con il che i mariti uccisi dalle mogli perdono la loro specificità vittimaria, incorrendo nella medesima generalizzazione rappresentata dall’estensione alle donne del termine “omicidio”).
Ma quando a uccidere non è la consorte bensì l’amante, la fidanzata, la ex? Si dovrà, per analogia con “femminicidio”, parlare di “maschicidio”? Orrida parola, che infatti non esiste; esiste invece “androcidio”, che è però di uso limitatissimo e del resto non ha (non può avere) neppure i presupposti sessisti presenti nella accezione ristretta del femminicidio. Insomma, in questo caso non c’è discriminazione di genere ma c’è il delitto, un delitto che non ha neppure la dignità di un nome. Qui a discriminare è soltanto il linguaggio.