«Gli italiani ci giudicheranno tra cinque anni», è il ritornello dei colonnelli di Fratelli d’Italia, slogan furbetto che sintetizza una precisa filosofia meloniana: «Il bilancio di questo lavoro, che è una maratona, non i cento metri, lo voglio tirare alla fine di questo percorso», tra cinque anni appunto. E quindi? Stiamo tutti zitti per cinque anni? Certo che il bilancio finale – come direbbe Catalano – si fa alla fine – ma la democrazia, che si fonda appunto sul giudizio del popolo, vive tutti i giorni, non si limita al giorno delle elezioni (tra parentesi, se ci arriva a cinque anni, questo governo).
Nella loro idea semplificata del conflitto politico e del rapporto tra governanti e governati, i dirigenti di Fratelli d’Italia malcelano una certa insofferenza per la doverosa sottoposizione all’esame quotidiano dell’operato del governo, una specie di fateci lavorare di berlusconiana memoria senza l’allure manageriale di quella Forza Italia degli anni Novanta ma con la stessa prosopopea.
La presidente del Consiglio ieri ha parlato dello spread che scende e della Borsa che sale strumentalizzando una condizione generale un po’ più favorevole di qualche mese fa, e senza riconoscere che è più favorevole grazie alla politica economica seguita negli ultimi mesi del governo Draghi peraltro da lei non sconfessata, anzi. È merito del precedente esecutivo infatti aver trovato la strada giusta per sottrarsi al ricatto della Russia sull’energia, che era il motivo fondamentale della crisi dello scorso autunno con l’impennata dei prezzi del gas che adesso stanno drasticamente scendendo.
Poi gli italiani lavorano, certo. La gente si dà da fare. I giovani si arrabattano. Ma Meloni non può rivendicare alcun merito di questo, non c’è una sola misura del governo che abbia dato una spinta al Paese. La sua logica è quella del tirare a campare, tanto si vedrà tra cinque anni, e per il momento non sarà certo questa opposizione divisa e litigiosa a impensierire la presidente del Consiglio.
La maratona delle riforme? Ma dove, quali? Il presidenzialismo sta andando malissimo, l’autonomia differenziata è un pasticcio, la riforma della giustizia è stata rimessa nel cassetto. E la gente sa tutto, giudica adesso, non tra cinque anni, vede che nulla è cambiato, immagina che nulla cambierà, ma si tira avanti così, danni grossi in fondo questi non ne fanno.
Per spezzare la monotonia di un’azione di governo scialbetta e confusa ci sarà sempre un Giuseppe Valditara o un Gennaro Sangiuliano a spararne una grossa per reggere lo spazio di un mattino prima di passare ad altro. Di Matteo Salvini si sono perse le tracce, se non fosse per i tristi pastoni del tg che propinano in continuazione Alessandro Cattaneo e Licia Ronzullim nessuno si ricorderebbe dell’esistenza di Forza Italia.
E poi, di colpo, fanno la faccia feroce. A costo di far ridere il Paese, come con il decreti anti-rave, oppure di creare sconcerto come nel caso dell’anarchico Alfredo Cospito che sta fornendo l’occasione per seminare azioni violente in Italia e all’estero: «Lo Stato non tratta con chi minaccia», ha fatto sapere ieri Palazzo Chigi, rinverdendo le parole adoperate nel 1978 all’epoca del rapimento di Aldo Moro.
Si discute ancora oggi se la famosa linea della fermezza allora fu moralmente lecita e politicamente giusta: ma eravamo in tutt’altro contesto, con lo Stato messo alle corde da sé stesso e da quel piccolo esercito di assassini. Il caso Cospito è completamente diverso. È un condannato al 41 bis, una sorte che egli contesta con uno sciopero della fame che lo può portare alla morte.
Non vorremmo un’altra “morte accidentale di un anarchico” per quanto colpevole di atti gravissimi. Piercamillo Davigo ha fatto spallucce con un cinismo che fa venire i brividi: «Altri detenuti in sciopero della fame sono morti». Ecco, un governo sostanzialmente inutile si può finanche sopportare, un governo “davighiano” proprio no.