In Italia è difficile considerare qualcuno vittima dopo una certificazione ufficiale di colpa, a maggior ragione se guadagnata in un qualche processo esemplare e per crimini politicamente sensibili – anche se non necessariamente politici – quali sono quelli che consentono comodamente di tracciare il confine tra il bene e il male e di prendere agilmente parte dal lato dei giusti della storia raccontata dai tg di prima serata.
Per questo è così difficile misurarsi col caso di Alfredo Cospito, che ha un rango criminale decisamente più modesto dei mafiosi e dei terroristi destinatari del classico “buttate la chiave”, ma che ha un curriculum ragguardevole di violenze orrende, predicate e praticate e che è un irredimibile auto-dichiarato, con le sue promesse di eversione pronunciate pure dal letto della sua cella al 41-bis e al centesimo giorno di sciopero della fame.
Però se Cospito, pur essendo certamente un criminale, è pure una vittima, qualcun altro è colpevole e il perimetro dei colpevoli si restringe pericolosamente ai vertici delle istituzioni politiche e giudiziarie, tra il Palazzaccio e Via Arenula, che dopo avere creato il caso Cospito, condannandolo all’ergastolo ostativo per un attentato dimostrativo in cui nessuno si è nemmeno sbucciato un ginocchio e mandandolo al 41-bis per riconosciuta intemperanza rivoluzionaria, adesso se lo palleggiano prendendo tempo, essendo proprio il tempo – per le note ragioni – quello che manca.
Visto che in questo Paese l’idea del diritto è ragguagliata al conformismo morale o all’opportunismo politico, Cospito casca male su entrambi i lati e di suo ci mette anche il ripudio e il disconoscimento dello Stato, che a sua volta gli disconosce la misura razionale e legale dell’esecuzione della sua pena, in nome di quel senso della fermezza, che in Italia è da sempre il passepartout dell’arbitrio e dell’abuso, poliziesco o giudiziario.
È tutto talmente grottesco, che anche in punto di diritto non si capisce neppure più dove adesso stia l’uovo e dove la gallina, se il Ministro della Giustizia possa revocare il provvedimento del suo predecessore sul 41-bis per Cospito, non in base a una legge che questo potere gli ha certamente tolto, ma a una giurisprudenza che gliel’avrebbe in qualche modo restituito (chi vuole approfondire la questione kafkiana, legga qui a pag. 92), o se tocchi ad alcune toghe del Palazzaccio decidere (tra tre mesi, con calma) se alcune altre toghe del Palazzaccio si erano sbagliate a equipararlo, grosso modo, ai mafiosi dell’attentatuni.
Oggi, rispetto a questo caso, che non si può dichiarare aperto senza aprire una questione immensa e dunque da rimuovere, la cosa più terribile è che la morte di Cospito è la soluzione più coerente. Quello di Cospito è un cadavere utile, se non necessario, a chiudere un caso con soddisfazione di tutti. Dello “Stato” che avrà dimostrato di non fermarsi davanti a nulla, neppure di fronte alla legge, e dell’“Anti-Stato” che avrà il suo cadavere da piangere e il suo eroe da elevare agli altari della rivoluzione futura.
Servirebbe uno scarto, un disallineamento dei pianeti, uno scherzo del destino e ci sono, al momento, due sole persone che credibilmente possono determinarlo.
Uno è lo stesso Cospito che dovrebbe aprire oggi uno spariglio per arrivare vivo alla sentenza della Corte costituzionale dove potrebbe umiliare i ponzipilati che lo vogliono murato al 41-bis e, a questo punto, morto.
L’altro è il ministro della Giustizia, il quale, appoggiandosi alla giurisprudenza della Cassazione che gli riconosce il potere di revocare il provvedimento del suo predecessore, potrebbe decretare il ritorno di Cospito nel girone infernale dei detenuti “normali”.
Per ragioni diverse, non confidiamo troppo nelle decisioni né di Cospito, né di Nordio, ma la speranza, come si dice, è l’ultima a morire.