In queste ore, nella commozione per la sua morte, e nella devozione un po’ conformistica che la stampa è solita tributare a un grande che se ne va, il florilegio dei commiati al papa emerito Benedetto XVI converge su una serie di caratteristiche particolari e oggettivamente eminenti di Joseph Ratzinger, che portarono un teologo puro ad assurgere al soglio di Pietro e un intellettuale conciliare non pentito a diventare custode e difensore del tradizionalismo dottrinario e, nel contempo, a stupire il mondo con lo scandalo della grande rinuncia e con un atto definitivo di secolarizzazione dell’istituzione papale.
Da questi ricordi, esce un profilo più complesso e sfaccettato di quello caro ai suoi più devoti sostenitori e più acerrimi nemici, in particolare sui temi dell’esperienza e dell’organizzazione ecclesiale e del rapporto tra verità dottrinarie e impegno pastorale. Alla Chiesa che ha governato per otto anni e a cui ha tentato inutilmente di dare la sua impronta, Benedetto evidentemente non pensava come a una caserma e a dimostrarlo basterebbe il rovescio dell’ideale della collegialità in quel correntismo clericale, che scatenò l’inferno di Vatileaks e che di fatto lo costrinse alle dimissioni.
Molta meno attenzione nei ricordi di Benedetto XVI si è però riservata al suo profilo pubblico e politico e al segno – per dirla in modo molto semplicistico – che egli ha cercato di imporre ai rapporti tra la storia della Chiesa e quella del mondo.
Su questo piano – anzi mi permetto di dire: essenzialmente su questo piano – la figura di Benedetto XVI risulta schiacciata e (sia detto con laico rispetto) perdente di fronte a quelle di Giovanni Paolo II e di Francesco, due papi non solo più carismatici e “barbarici” di lui, ma soprattutto due vescovi non italiani di passaporto e non romani di esperienza ecclesiale e quindi, anche per questo, più capaci di leggere i segni profetici dei tempi e di pensare e vivere la Chiesa fuori dalle colonne d’Ercole del potere vaticano.
Quando nel 1978 diventa Papa, Karol Wojtyla non prosegue, ma sovverte il canone fondamentale della Ostpolitik della Santa Sede, fondato sulla dolorosa necessità di convivenza e di compromesso con le leadership comuniste del blocco sovietico e decide che il ruolo della Chiesa non poteva limitarsi alla denuncia degli orrori e degli errori del comunismo sul piano religioso, ma doveva cercare il ribaltamento del potere comunista nell’Europa prigioniera di Mosca. La riuscita di questo piano di certo non è solo legata al cambiamento di rotta dalla Chiesa, ma avviene sulla spinta di un pontificato che aveva subordinato la diplomazia vaticana alla politica ecclesiastica e alla politica cattolica tout court.
Quando Ratzinger succede a Wojtyla, di cui non aveva condiviso gli esiti potenzialmente sincretistici del dialogo interreligioso, la sua Chiesa si impegna essenzialmente in una missione di denuncia dei pericoli del relativismo, sia per la salvezza della Chiesa che per quella del mondo. In questi termini e con questo programma di fatto annuncia la sua candidatura a succedere a Wojtyla nell’omelia che pronuncia da decano del collegio cardinalizio durante la Missa pro eligendo Romano Pontifice il 18 aprile 2005, il giorno prima di essere eletto Papa.
In questa denuncia, il comunismo sta esattamente sullo stesso piano del liberalismo e l’ateismo politico su quello dell’agnosticismo filosofico. Volti diversi dello stesso male. Tutto questo non solo portò a identificare «valori politicamente non negoziabili» in larga misura coincidenti con quelli della morale sessuale e familiare della Chiesa e a far coincidere, nella pubblicistica più corriva, l’antropologia cristiana con la bioetica proibizionistica, ma soprattutto alienò anche la Chiesa dalla comprensione dei più foschi segni dei tempi, che già si addensavano nel cielo del mondo libero e che di lì a qualche anno avrebbero portato, giusto per fare un esempio concreto, auto-dichiarati politici ratzingeriani a identificare in Vladimir Putin e in Donald Trump, in Viktor Orban e in Jair Bolsonaro dei veri e propri defensores fidei.
Non era ovviamente questo il proposito di Ratzinger, ma questo è stato il ratzingerismo reale, per cui ancora pochi anni fa il cardinale Camillo Ruini, flirtando con il sovranismo più volgare, invitò pubblicamente la Chiesa di Bergoglio a dialogare con Matteo Salvini e a interpretare il suo rosario talismano come una reazione contro il politicamente corretto.
Sarebbe bello pensare che il passaggio di consegne tra Ratzinger e Bergoglio sia avvenuto come nel film d’invenzione “I due Papi” di Fernando Meirelles, che racconta del loro rapporto, del legame tra due personalità diverse e alternative e della decisione di Ratzinger di guidare nella sostanza l’auto-ribaltamento della Chiesa e la sua consegna a un pontefice che più lontano da lui non si sarebbe potuto pensare. In ogni caso, che ci sia o meno lo zampino di Benedetto XVI, quel che è vero è che Papa Francesco torna a fare della Chiesa, come fece Wojtyla, anche se con un programma del tutto diverso, un centro di ambizioni politicamente universali.
La sua Chiesa “ospedale da campo dell’umanità”, con le sue istanze elementari di riconoscimento e rispetto della sofferenza umana, come segno di concreta partecipazione al mistero della Croce, non è dottrinariamente così lontana da quella di Ratzinger. Ad essere totalmente diversa è la sua proiezione e l’agenda delle priorità politiche.
È abbastanza grottesco contrapporre un Ratzinger rigido e cattivo a un Bergoglio tenero e buono, quando tutto dimostra che è il secondo ad avere avuto più esperienza e mestiere con le durezze del potere vaticano e sempre il secondo ad essere inciampato in uscite di imbarazzante insensibilità (memorabile è il «se uno mi offende la madre gli do un pugno», all’indomani del massacro di Charlie Hebdo).
È invece realistico contrapporre l’immagine di un Benedetto XVI perso nei labirinti della curia romana a battagliare contro i fantasmi del relativismo, e quella di un Francesco in presa diretta con le urgenze della sua Chiesa derelitta e terzomondiale e consapevole di dovere sfuggire l’abbraccio mortale del nazionalismo religioso di fronte agli sconvolgimenti demografici globali e alla oggettiva trasformazione dell’identità cattolica, da collante del potere del Nord del mondo, a interprete delle angosce e delle speranze di un Sud non più terra di missione, ma serbatoio di fedeli e vocazioni.