L’ingorgoLa linea sempre più stravagante del Pd sul Lazio, sulle alleanze e su sé stesso

Alessio D’Amato, proposto da Carlo Calenda e accettato dai dem, aveva aperto ai post-grillini-ora-contiani per le regionali. Per sua fortuna la candidata di Conte ha risposto picche, ma lui non ci ha fatto una bella figura, e tra cinque settimane si vota

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Dice il Nazareno che bisogna «gestire l’ingorgo» dato dalla vicinanza della data delle elezioni regionali (12 febbraio) e delle primarie (19 febbraio), ingorgo creato dal Partito democratico medesimo quando fissò la data dei gazebo una settimana dopo le elezioni in Lombardia, Lazio, Friuli e Molise: il classico caso in cui il partito di Enrico Letta si crea problemi da solo.

Letta tiene ferma la data del 19, altri vorrebbero quella del 26: e che cambia? Dicono che l’allungamento del brodo favorirebbe Elly Schlein e soprattutto Gianni Cuperlo (che incassa endorsement di intellò molto di sinistra tipo Nadia Urbinati).

La questione è emblematica della condizione, diciamo così, esistenziale del Partito democratico: quella dell’ingorgo, appunto, o dell’acqua alla gola che dir si voglia, di un blocco digestivo, di un lavandino ostruito, del traffico all’ora di punta, di una fila alle poste. Se non prevalesse la noia, questo congresso pur così importante sarebbe ansiogeno: ingorgato da meccanismi barocchi e lotte intestine piuttosto sorde.

Gli ottimisti nutrono la speranza che sopravvenga un sussulto di razionalità e di qualità del dibattito, d’altronde a giorni saranno presentati i documenti dei quattro candidati e forse la discussione sarà più serrata e argomentata. Ma poi c’è un ingorgo più serio, quello di una discussione che non si capisce più su cosa sia, certo non sulla linea politica, tema che incredibilmente non sta incrociando il congresso e che in teoria dovrebbe essere il cuore del confronto: una discussione sulla posizione sulle alleanze, sulle cose da fare.

Nel Lazio l’ingorgo stava per produrre un definitivo blackout di lucidità politica ma la cosa si è risolta per merito del Movimento 5 Stelle e non del Partito democratico che, fosse stato per i suoi dirigenti, avrebbe commesso l’ultima giravolta di una serie che va avanti da mesi.

La fortuna del Nazareno è che ieri Donatella Bianchi, la candidata di Giuseppe Conte nel Lazio, ha risposto con un secco no alla improvvida apertura di Alessio D’Amato ai Cinquestelle. D’Amato, proposto per primo da Carlo Calenda e accettato dal Partito democratico con molti mal di pancia dei suoi “uomini forti” che avrebbero desiderato essere loro i protagonisti delle regionali, all’improvviso aveva lanciato la proposta di un accordo politico con i post-grillini-ora-contiani con Bianchi come sua vice.

Una proposta fatta col cappello in mano e poco decorosa, essendo rivolta a un partito che rifiuta ideologicamente il termovalorizzatore, tema sul quale a dire la verità D’Amato e il Partito democratico (a parte Roberto Gualtieri) non paiono proprio determinatissimi, ma diciamo che stanno sul minimo sindacale.

Certo è difficile pensare che il giovane assessore alla Sanità della giunta Zingaretti si sia inventato da solo questa brillante mossa e infatti è sicuro che a guidarlo sia stato proprio Zingaretti, maestro nel fare il ragionamento più banale che esista: se andiamo divisi perdiamo e chi se ne frega se sul termovalorizzatore la Bianchi ha la stessa posizione di Francesco Rocca, il candidato della destra, entrambi contrari a un’opera decisiva per risolvere la piaga dei rifiuti.

Dalla triste storia emergono tre dati: che D’Amato ha fatto una brutta figura anche personale; che gli ex-grillini-ora-contiani puntano a farsi i fatti propri lucrando sulle disgrazie altrui; che il Partito democratico era pronto a tradire un’altra volta i patti politici con il Terzo Polo. L’ingorgo laziale poteva finire peggio, ma non è stata una pagina di bella politica. Tra cinque settimane si vota.