«Fa’ che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo».
E fin qui niente di nuovo, l’illustre medico Ippocrate di Cos vissuto tra il 460 a.C. e il 377 a.C. aveva già capito tutto: l’importanza e il ruolo centrale dell’alimentazione ai fini della nostra salute e benessere.
Tutto bene se applichiamo questo pensiero alla nostra dieta quotidiana e ai piatti che cuciniamo nella comodità della nostra cucina di casa o che scegliamo di ordinare al ristorante.
Ma perché se veniamo catapultati, per qualunque ragione, in un letto di ospedale, al primo pasto, il cibo, che dovrebbe essere un elemento fondamentale ai fini della guarigione, ci appare addirittura peggiore della malattia stessa?
Domande che effettivamente ci si pone solo una volta calati nella parte alle quali ho cercato alcune risposte da chi si occupa di ristorazione ospedaliera in prima persona come Luisa Zoni, responsabile fino al 2019 dell’Unità Operativa di Nutrizione Clinica nell’Ausl di Bologna e oggi consulente al Tavolo Tecnico dell’Emilia Romagna sulla Sicurezza Nutrizionale (Tarsin), e Ferdinando A. Giannone, biologo e nutrizionista, responsabile del progetto Cucina e Ristorazione Uniti nella Nutrizione Clinica Hospedaliera (Crunch).
Innanzitutto, è sempre più lontano il tempo delle mense interne degli ospedali che, nella maggior parte delle strutture, hanno lasciato spazio ad appalti esterni, sottoposti al controllo da parte dell’ospedale attraverso l’economato, i dietisti o i servizi di dietologia. L’azienda che si aggiudica il contratto relativo al servizio di ristorazione ospedaliera fornisce pasti pronti al consumo che sono quindi preparati in edifici esterni all’ospedale, e, a volte, anche piuttosto lontani.
È con il dietetico ospedaliero, la raccolta di diete a composizione definita realizzate nel rispetto delle linee di indirizzo nazionale per la ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, che si definiscono il vitto comune – adatto a pazienti che non presentano particolari patologie, ispirato alla stagionalità e alle tradizioni locali, con scelta tra almeno due alternative per portata e piatti fissi – e i vitti specifici per diverse patologie, con possibilità di prescrizione da parte di personale di diete ad personam che prevedono grammature e/o alimenti e/o modalità di allestimento specifiche. Sempre garantendo gli apporti consigliati dai Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana (Larn).
Secondo le linee di indirizzo nazionale per la ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica: «I pasti erogati devono garantire prioritariamente i requisiti di food safety (sicurezza igienico-microbiologica) e di food security (apporto di energia e nutrienti adatto alle esigenze dell’utente), adeguando al contesto le definizioni stesse, considerandole un insostituibile completamento dei percorsi di prevenzione e cura» e ancora: «Il servizio di ristorazione collettiva deve raggiungere un ottimale livello sia in termini di qualità nutrizionale, che di qualità sensoriale».
Il dubbio è proprio sulla qualità sensoriale. Su che fine fa il gusto.
E qui entrano in campo diversi elementi, primo fra tutti la nostra esperienza pregressa di gusto secondo la quale viene stabilito inevitabilmente un confronto con ciò che troviamo sul vassoio che non lo reggerà, quel confronto. Anche perché non va dimenticato che il vitto stesso potrebbe prevedere preparazioni dalla scarsa espressione gustativa, che partono quindi male in partenza sotto questo aspetto.
La vista è il primo organo di senso coinvolto nell’esperienza perché interviene prima ancora dell’ingestione del cibo. E anche il primo che qui viene deluso, sia perché le pietanze vengono comunque preparate alcune ore prima – perdendo le caratteristiche di una preparazione espressa – sia perché il fattore estetico – che indubbiamente rende il piatto più o meno invitante – non è certo un elemento centrale in questo tipo di ristorazione. Solo l’olfatto, direttamente connesso all’ippocampo – centro della memoria a lungo termine – come il gusto, potrebbe venirci in aiuto nel caso in cui l’odore della pietanza attivi ricordi o stati emozionali di un cibo a noi gradito.
A questo, va aggiunto lo stato d’animo del paziente ospedaliero che, lontano dai propri affetti, dai propri indumenti, dalle routine abituali, costretto a stare in un luogo non familiare, senza punti di riferimento e con pochi stimoli non sarà certo propenso a trovare quel che di buono potrebbe esserci nel piatto. Prenderà quindi parte al rito collettivo di denigrare il pasto ospedaliero a prescindere.
La perdita di elementi gustativi a favore di food safety e di food security è reale, e forse, nella maggior parte dei casi, inevitabile per la natura stessa della ristorazione collettiva – quel settore della ristorazione che consiste nella preparazione e consegna di pasti su larga scala rivolto a comunità di persone – soprattutto nel caso degli appalti.
Quanto incide sul soggetto l’alimentazione del periodo di degenza?
Esattamente quanto incide la nostra alimentazione, spesso non troppo bilanciata, che seguiamo in vacanza, ad esempio. È una parentesi, auspicabilmente breve, che poi ci riporta alla routine di sempre.
Eppure, c’è chi ha accettato la sfida di non lasciar morire il gusto del cibo in ospedale, portando avanti progetti virtuosi che possano dare un valore e un senso all’alimentazione, anche qui.
Crunch è un progetto nato nel 2016 al Policlinico di Sant’Orsola a Bologna: 1.515 posti letto, 40.966 ricoveri ordinari annuali, 6.807 dipendenti. E soprattutto, cucine interne.
Capitanato da Ferdinando A. Giannone, biologo, nutrizionista e responsabile del progetto (all’interno della struttura di Gestione Servizi & Operation diretta da Diego Lauritano), affiancato da Davide Sarti e Alessandro Guerzoni (assistenti tecnici della cucina centralizzata) e in collaborazione con le dietiste del Dipartimento di Nutrizione Clinica e Metabolismo, è un programma di sperimentazione quinquennale per far conoscere l’importanza del ruolo degli alimenti e dell’alimentazione nella prevenzione e nella terapia, che ha scardinato le procedure di appalto a favore di un controllo interno e diretto della cucina ospedaliera, unendo quindi la clinica alla ristorazione collettiva ospedaliera pubblica.
Crunch ha l’obiettivo principale di individuare nuove strategie nutrizionali nell’ambito del percorso clinico-assistenziale ospedaliero e adeguate pratiche di gestione della ristorazione ospedaliera per un miglioramento di tutta la filiera legata all’alimentazione – dalla materia prima al letto del paziente – permettendo ai cuochi di imparare dai clinici e di essere parte di un sistema che fa percepire loro la responsabilità di prendersi cura di qualcuno attraverso l’atto di cucinare e insegnare ai clinici che la cucina è una risorsa.
Si occupa di formazione e consulenza nel campo della nutrizione clinica applicata e delle più recenti Linee Guida nel campo della prevenzione alimentare, al personale della cucina ed altri operatori sanitari coinvolti in processi specifici (ad esempio personale sanitario, logopedisti…); di formazione e consulenza sulla valorizzazione delle produzioni territoriali tipiche del territorio per un utilizzo in ambito clinico-sanitario partendo dalla cucina e dal servizio di ristorazione del Sant’Orsola; di supporto tecnico professionale alla cucina e sviluppo di ricette e menu innovativi, con particolare riguardo al menu di alcune particolari patologie oltre che del menu vitto comune e della mensa interna; di sviluppo di analisi di fattibilità per preparazioni alimentari innovative a supporto delle singole Unità Operative e anche di supporto alla comunicazione per favorire il trasferimento delle conoscenze in campo nutrizionale all’alimentazione quotidiana.
Il cibo e la dieta sono concepiti come un supporto prezioso alla cura, ecco perché c’è una maggiore attenzione verso il cibo: contribuisce a migliorare, a più livelli, sia il percorso terapeutico che la qualità di vita del paziente. Il periodo di degenza può diventare uno strumento di educazione dei pazienti a un corretto stile alimentare, promuove la qualità del pasto a supporto delle terapie e sviluppa così una cultura del cibo come parte integrante della cura oltre che della prevenzione.
Alcuni esempi? Il pane viene acquistato da un forno locale, senza imballaggio e preparato con farina tipo 2, olio extra vergine di oliva e lievito madre; i menu rispettano la stagionalità, la carne è ridotta al minimo – e non manca mai nel sugo, fresco, del primo piatto della domenica perché siamo pur sempre a Bologna, i legumi sono sempre presenti, e, nel rispetto della tradizione locale, la pasta fresca, in occasione delle feste, è preparata a mano, direttamente nella cucina dell’ospedale.
Crunch dimostra come in ambito della ristorazione collettiva ospedaliera si può agire sì a vantaggio dei pazienti ma anche dell’ospedale.
La corretta gestione di un progetto così complesso lo rende sostenibile dal punto di vista economico con il raggiungimento del rapporto ideale tra qualità e prezzo ma anche perché attraverso il cibo si abbreviano le degenze, generando risparmi.
La sostenibilità è anche ambientale perché la gestione interna delle cucine elimina i costi dei trasporti – generati invece dagli appalti – elimina l’utilizzo di contenitori usa e getta per gli alimenti che lasciano spazio ai piatti in ceramica e riduce nettamente l’utilizzo di imballaggi. Inoltre, riduce gli sprechi, perché le eccedenze, non essendo uscite dall’ambiente cucina, vengono giornalmente donate, grazie a Last Minute Market – una società spin-off accreditata dell’Università di Bologna – ad associazioni beneficiarie.
Buono, sostenibile, educativo: Crunch è un modello senza dubbio virtuoso, una chiamata agli ospedali pubblici.
Ma come tutto – soprattutto tutto ciò che ruota intorno al cibo – anche il cibo che ci si presenta sul vassoio dell’ospedale, soprattutto se frutto di progetti così articolati, ha una storia che va raccontata.
Avrebbero mai avuto un impatto così positivo su di noi, i piatti di nostra nonna, estrapolati dal loro contesto, dalla loro storia, dalle loro modalità di preparazione? No.
E così anche la cucina in ospedale, di cui dal nostro letto non possiamo conoscere nulla, potrebbe acquisire tutto un altro significato.