Sul vassoio Come si costruisce un buon piatto da ospedale

Anche in corsia si può mangiar bene, grazie a cuochi capaci e aziende che fanno bene il loro lavoro, nonostante i rincari. Unico ostacolo: i bandi e la formazione

Foto di Annie Spratt su Unsplash

I pasti serviti in ospedale sono i prodotti di uno dei quattro segmenti che compongono la ristorazione collettiva, per la precisione quello socio-sanitario. Gli altri sono: scuola e università, azienda e altre collettività. Tutto il comparto occupa circa 96 mila addetti (per l’80% donne con età media superiore ai 50 anni). Queste persone – che possono lavorare in cucina, ma anche ai carrelli, o nel trasporto dei pasti – godono delle tutele del Contratto collettivo nazionale per i dipendenti dei settori dei Pubblici Esercizi, della Ristorazione Collettiva e Commerciale e del Turismo, firmato l’8 febbraio 2018. Fattore non trascurabile e, per molti addetti alla ristorazione “normale”, un vero miraggio.
In epoca pre-pandemica, il mercato della ristorazione collettiva cubava oltre 6,4 miliardi di euro (di cui 1,3 miliardi legati alla ristorazione socio-sanitaria) con oltre 1,4 miliardi di pasti preparati ogni anno (di cui 263,1 milioni in ambito socio-sanitario). Il 2020 ha chiuso con una flessione dei ricavi di circa il 40%, con le maggiori difficoltà riscontrate nel settore della ristorazione scolastica (-60%) e in quella aziendale (-43%). Per la ristorazione socio-sanitaria, invece, nel periodo 2019-2022 si è registrata una flessione complessiva nei ricavi delle vendite pari a -7,1%.

Secondo l’Osservatorio Ristorazione Collettiva e Nutrizione (Oricon) nel 2022 in tre settori di attività su quattro la produzione avrà raggiunto nuovamente circa il 90% di quella registrata nel 2019, con una sola importante eccezione: quella della ristorazione aziendale, ancora distante dai valori pre-crisi. Tuttavia, l’inflazione e il caro energia potrebbero complicare la risalita, erodendo i già bassi margini delle aziende operanti nel settore. Aggiungendo una difficoltà. Data la presenza di cifre specifiche riportate nei bandi di gara d’appalto, il fattore rincari non può inficiare la qualità nutrizionale dei pasti in nessun segmento, soprattutto quello ospedaliero.

Come si costruisce un buon pasto per un ospedale
Se ci si straccia le vesti affinché le mense scolastiche inseguano l’eccellenza gastronomica e nutrizionale, si parla meno delle cucine ospedaliere proprio perché forse si dà per scontato che lì il pasto non possa mai essere davvero buono. Cioè prima di tutto gustoso, poi salubre e nutrizionalmente equilibrato. Un tempo questi pasti venivano cucinati negli stessi nosocomi, in cucine ad hoc. Oggi, in numerosi casi, la cottura è esternalizzata e affidata a vassoi personalizzati, abbattuti e poi riportati a una temperatura di 65°C. Il risultato? Spesso non ottimale. Per questo, quando possibile, i parenti cercano di sostituirsi alla mensa, portando dall’esterno vettovaglie utili a risollevare l’umore, che hanno un effetto benefico sullo spirito, ma pessimo in termini di spreco alimentare.
In ospedale è possibile usufruire di due tipi di pasto. Il primo è erogato con il vassoio personalizzato, con tanto di menu e specifica di calorie. I piatti sono selezionati dal paziente o dal medico. Il pasto viene preparato nella mensa dell’ospedale o in un centro di cottura esterno. Il vassoio viene dunque inserito in un carrello, che ha il compito di tenere il cibo a 65°C se preparato in loco. Altrimenti la stessa tecnologia prende in consegna il pasto cotto fuori dall’ospedale, abbattuto a -4°C, per poi riattivarlo una volta a destinazione nei carrelli, riportando il cibo a 65°C. Esiste anche una seconda modalità: quella del pasto, realizzato nelle cucine interne, da sporzionare al letto del paziente, con mestoli specifici per dare le giuste quantità di ogni alimento.
Quando la cucina è interna all’ospedale, i vantaggi sono sensibili. Saverio Giampietro, Direttore operativo Pellegrini Spa, è anche il Direttore dei servizi di ristorazione dell’Ospedale Generale Regionale F. Miulli di Acquaviva delle Fonti (Ba). Un ospedale da 850 pasti al giorno, 300 mila in un anno. «I pasti trasportati, anche se fatti bene, non raggiungono il livello di quelli preparati nelle mense e distribuite nei reparti. Quando non si dispone di una cucina interna, bisogna investire in tecnologia anche per i pasti trasportati». Obiettivo: migliorare il risultato perché «il pranzo deve essere una terapia, deve far bene al corpo, ma anche alla mente».

Scelta delle materie prime
La scelta delle materie prime avviene spacchettando gli ingredienti del piatto. Si scelgono gli alimenti, utilizzando per lo più prodotti freschi. C’è anche chi, come racconta Giampietro, ha messo su una galassia di aziende per poter controllare l’intera filiera: dal campo al letto.
«Il 70% dei prodotti utilizzati da Pellegrini Spa hanno marchio Arcangeli, azienda interna al gruppo, con prodotti certificati. Pasta, olio, aceto: Arcangeli produce e confeziona con le caratteristiche organolettiche che abbiamo deciso di inserire nel pasto. Frutta, verdura, latticini vengono acquistati da aziende a consegna diretta, a chilometro zero o quasi, come da bando di gara. Per il Miulli, i latticini vengono da Gioia del Colle, mentre da Massafra arriva tutta l’ortofrutta. Per la carne, l’approvvigionamento viene fatto attraverso Central Food, piattaforma Pellegrini sita a Pomezia. Le aziende vengono selezionate dall’ufficio acquisti, andando anche a visitare campi e stabilimenti».

Come si scelgono le ricette da preparare
Prima di fare la spesa, si decide quali ricette preparare. Considerato che la degenza media di un paziente in un ospedale italiano è di 4,6 giorni, si tende a stilare un menu stagionale. Si può optare per l’alternativa inverno-estate o ispirarsi alle quattro stagioni. «Il menu si costruisce attraverso la collaborazione di diverse professionalità – spiega Massimo Montagna, direttore di filiale Centro del Gruppo La Cascina – che devono costruire un buon risultato. Per questo ci si avvale di dietisti e nutrizionisti che, in accordo con le aziende sanitarie locali di competenza, effettuano un lavoro preliminare sulla stesura dei piatti, sulla costruzione di diete speciali, seguendo le indicazioni nutrizionali terapeutiche. Giorno dopo giorno sottopongono le varie alternative ai pazienti, in modo da poter offrire sempre un menu equilibrato e vario».
«Abbiamo un ricettario elaborato dall’ufficio qualità, con all’attivo 2500 ricette. La selezione viene fatta da noi, in mensa» spiega Giampietro. «Abbiamo quattro dietiste di cui anche una biologa. Io sono un ex chef. Abbiamo un menu quattro stagioni bisettimanale, così da avere sempre prodotti di ogni stagione. Abbiamo inserito i legumi come base dieta, ceci e lenticchie, che in estate finiscono in insalata, per limitare l’uso della pasta che raramente giunge a destinazione in condizioni ottimali. Il 20% del nostro menu è vegetariano. Al Miulli, il nostro ricettario si ispira anche alla tradizione pugliese. La domenica proponiamo la lasagna rivisitata in chiave light, ma anche la pasta al forno, che quando arriva è bella a vedersi e a mangiarsi. Il paziente che è costretto a rimanere in ospedale di domenica riceve sollievo anche solo da questo piatto».

Occhio allo spreco
Un altro tema legato alla bontà – questa volta ambientale – dei pasti da ospedale è quello dello spreco. In molte stanze del territorio nazionale manca la possibilità di differenziare i rifiuti. In più, se il pasto servito è cattivo, quel cibo torna indietro, spesso irrecuperabile persino per gli enti caritatevoli. «Stiamo lavorando al tema dello spreco da moltissimi anni, facendo prevenzione, ma è difficile attuarla nel segmento sanitario, se non con menu personalizzati» sottolinea Carlo Scarsciotti, Presidente di Oricon. «La ristorazione non spreca in preparazione. Può accadere se si sbaglia il procedimento di cottura, per l’abbondanza degli alimenti serviti quando non ci sono diete mirate con la prenotazione al posto letto. Ma quando il capitolato è fatto bene, non c’è spreco».

Quanto costa un pasto da ospedale
Ogni scelta – dal carrello al vassoio, passando per gli ingredienti, chi li cucina e li trasporta – ha un prezzo e questa cifra è stabilita dai capitolati delle gare d’appalto. «Per costruire un buon pasto da ospedale si deve partire da un capitolato e un disciplinare di gara scritti bene» spiega Scarsciotti. «Spesso questi documenti vengono redatti senza che ci siano le competenze giuste nelle stesse strutture ospedaliere. Un bando di gara per la ristorazione collettiva ospedaliera deve essere scritto per garantire gli obiettivi nutrizionali, fondamentali nel percorso di recupero del paziente. Troppo spesso si propone un capitolato con un prezzo non congruo. Fatto 100 il punteggio di aggiudicazione, 70-80 punti sono destinati a parametri qualitativi inerenti al servizio, la qualità delle derrate, la loro provenienza, i sistemi di cottura, i menu alternativi, le diete speciali, le attrezzature e la sostenibilità ambientale. Gli altri 20-30 punti sono legati al prezzo che spesso, magari per ricercare consensi, non è congruo ai parametri richiesti».
A seconda dei contratti stabiliti dalle gare d’appalto, il prezzo di un pasto da ospedale varia. «Siamo nel 2023 con contratti in essere dal 2018» sottolinea Giampietro. «A causa degli aumenti subiti da materie prime ed energia, il food cost incide per il 33%, mentre il 58% va ad assorbire il costo del personale. Di conseguenza, il margine per l’azienda è molto basso».

L’errore nel vassoio
Si può sbagliare un piatto di patate lesse? Si può essere tentati di rispondere di no. Anche un bambino potrebbe farle. Per gli chef da ristorazione collettiva dovrebbe essere un gioco da ragazzi. Invece può capitare che arrivino fredde o, peggio, crude. «Gli errori possono essere diversi – sottolinea Montagna -anche legati alla stagionalità. Può esserci anche l’errore dell’operatore che allestisce il carrello, che per sbaglio scambia la posizione della ciotolina, mettendola dalla parte fredda e non da quella calda».
Poi ci sono i costi e i margini, sempre più stretti dopo la pandemia. Se i bandi di gara non permettono di derogare alla qualità del cibo, si deve tagliare altrove. Forse sulla formazione del personale, che dunque non conosce approfonditamente il funzionamento della strumentazione.
«Il piatto non può venire male» dichiara Scarsciotti. «Se accade, c’è un problema di formazione del personale e di controllo. Alcuni punti delle gare devono essere legati alle professionalità coinvolte».

Dentro le cucine
Franco Aliberti ha recentemente lanciato una domanda. «Andreste lo stesso a mangiare e spendere i vostri soldi in ristoranti “famosi e stellati” sapendo che sfruttano, sottopagano e trattano male i collaboratori? Ricordatevi che chi non parla oggi danneggia sé stesso e chi viene dopo. Il dopo è il futuro».
Da una parte, dunque, il sacrificio, il precariato, lo sfruttamento, in nome della qualità, della gola, dell’effetto wow. Ma se gli chef si battono per la ribalta, trascorrendo e sudando in cucina per una media di dodici ore al giorno, senza garanzie, in spregio della propria salute, il cuoco della ristorazione collettiva vive la cucina con ritmi da impiegato. Contratto a tempo indeterminato, garanzie, orario d’ufficio, straordinari. Otto ore e si va a casa.
Davis Pasquale fa lo chef per la ristorazione collettiva dal 1992. Da trent’anni entra in cucina alle sei del mattino e ne esce alle due del pomeriggio. Dopo il diploma alberghiero e varie esperienze in villaggi turistici, ristoranti e alberghi, ha scelto questo segmento perché è «un lavoro pianificato, standardizzato, con metodo e la sicurezza di un contratto». Oggi lavora per Sodexo in un ospedale, in Sardegna.
La giornata inizia con il controllo celle e la verifica dei criteri previsti dall’Haccp. Poi si passa alle colazioni. Successivamente si lavorano le prenotazioni prese dalle dietiste, accorpandole per reparto e separando i vari menu dalle diete speciali. A quel punto inizia la produzione: primi, secondi, contorni, seguendo gli schemi settimanali e stagionali, «Anche se le variazioni sono all’ordine del giorno».
Per Pasquale il vassoio personalizzato è preferibile allo sporzionamento a letto: permette di contenere gli sprechi e di seguire un processo standardizzato. Proprio i rigidi controlli e protocolli della ristorazione collettiva hanno normato anche quella ordinaria, aperta al pubblico. Ma tra le due esperienze sopravvive un importante gap di gusto.

Nonostante gli standard, il ricettario e i professionisti ai fornelli, può capitare che qualcosa vada storto. Una temperatura da forno errata. Un tempo di cottura sbagliato. «Ma se uno lavora male, lo farà sia al ristorante sia nelle cucine di un ospedale. Dobbiamo essere pronti ad affrontare subito l’errore, effettuando anche controlli contestuali. Abbiamo a che fare con pazienti di ogni tipo, anche con problematiche importanti, e ce ne dobbiamo prendere cura».
Molto fa anche la selezione e formazione del personale. «Quando scegliamo gli operatori – cuoco, autista, magazziniere, addetto mensa – devono passare attraverso una formazione aziendale» spiega Montagna. «Il gesto dell’operatore arriva dopo la giusta formazione, elemento di garanzia, che porta l’errore finale quasi a zero».

In nome della bontà, ovunque
Cosa manca per avere un pasto da ospedale buono ovunque? Mancano i controlli. A volte manca la formazione dei lavoratori, perché impossibile da coprire per stare nel prezzo di gara. Manca la customer satisfaction digitalizzata. Secondo Scarsciotti: «La qualità del servizio dovrebbe essere monitorata anche durante l’esecuzione, che potrebbero tradursi in penali per le aziende, ma anche nel miglioramento dell’operato di chi lavora in cucina. Ma soprattutto abbiamo bisogno di capitolati fatti bene, con prezzi congrui: il prezzo basso non può più essere una scusa».
A proposito di prezzi, il Covid e i rincari hanno rimescolato le carte, erodendo ancora di più i margini. Le aziende però devono tenere «La schiena dritta» spiega Montagna. «Le società si devono dotare di un ufficio acquisti che garantisca la stessa qualità pre-pandemia con acquisti mirati. La difficoltà nel mantenere l’equilibrio contrattuale resta. Per questo bisogna adeguare i contratti con delle tabelle di revisione».

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