Cambio di passoL’arduo percorso verso l’ecosostenibilità delle catene di fast food

Dall’Unione europea - dove la Francia di Macron riveste un ruolo di apripista - agli Stati Uniti: molte aziende che operano in questo settore si stanno muovendo concretamente in ottica green, ma la riduzione della plastica da parte dei colossi della ristorazione rischia di essere uno specchietto per le allodole

Emmanuel Macron lo aveva promesso da tempo: «Faremo una guerra spietata alla plastica monouso, e la Francia sarà uno degli Stati più avanzati in tema di spreco delle risorse». Durante la campagna elettorale della scorsa primavera aveva rincarato la dose: «Questo è solo l’inizio, abbiamo grandi obiettivi» e infatti un paio di settimane fa è stata data applicazione a una norma contenuta nella legge Agec (Anti-gaspillage pour une économie circulaire) del 2020. 

Con l’inizio del nuovo anno fast-food e luoghi di ristoro devono usare stoviglie riutilizzabili al posto delle classiche confezioni usa e getta. Il percorso per arrivare fino a questo punto è partito tre anni fa e si concluderà nel 2040, secondo un iter ben delineato dal governo francese. Obiettivo: trasformare l’attuale economia fondata su basi “lineari” (produrre, consumare, smaltire) in economia “circolare”.

Molti erano scettici riguardo alla collaborazione dei colossi del fast-food verso politiche che modificano imballaggi, logistica, trasporti delle materie prime e soprattutto che incidono sui costi. Il cibo “fast” costa poco, questo è il suo punto di forza e non è detto che il consumatore sia disposto a spendere di più per mangiare lo stesso panino. Nello specifico la norma prevede che i ristoranti con più di venti posti a sedere forniscano: piatti, posate, tazze e bicchieri completamente riutilizzabili e lavabili. Stesse regole per mense e caffetterie. 

Un’eccezione è però consentita. I contenitori non riutilizzabili possono essere impiegati per l’asporto e le consegne a domicilio. Altra precisazione: le nuove confezioni devono essere lavabili con un ciclo di lavastoviglie a sessanta gradi per consumare meno acqua ed energia elettrica. In Francia ci sono circa trentamila punti di ristoro che appartengono a catene di fast-food che nel complesso vendono sei miliardi di pasti all’anno. Queste attività producono oltre centottanta tonnellate di rifiuti. 

I grandi marchi si sono, almeno in parte, adeguati alle decisioni francesi. McDonald’s, Starbucks e Burger King lavorano da mesi per arrivare preparati a quella che è stata definita da Macron una «rivoluzione». McDonald’s ha cercato di mantenere l’estetica delle classiche versioni usa e getta: contenitore rosso per le patatine fritte, molto simile a quello classico di carta e scatole di plastica rigida, simili a quelle che vengono utilizzate dalle compagnie aeree per servire i pasti a bordo. 

I contenitori rigidi sono stati l’opzione più scelta dalle catene fast-food perché questo tipo di plastica dura più a lungo, anche se molto meno rispetto a ceramica e metallo. La critica più frequente riguarda infatti l’usura della plastica: le nuove stoviglie potrebbero consumarsi velocemente, rendendo necessaria la sostituzione dopo brevi periodi di utilizzo, con un impatto importante sull’ambiente. 

La Francia quindi fa da apripista mentre gli Stati europei capiscono come muoversi per adeguarsi alle linee guida dell’Unione europea. Dopo la Direttiva sulla plastica monouso entrata in vigore il 2 luglio 2019 è arrivato il Regolamento 2022/1616 sugli oggetti in plastica riciclata che vengono a contatto con gli alimenti. Da luglio non sarà più possibile far circolare plastiche riciclate certificate tramite leggi nazionali, ma sarà necessario che siano state prodotte tramite «un’adeguata tecnologia di riciclo» e per questo è stato istituito un registro unico dell’Unione dei riciclatori e degli impianti di riciclo e decontaminazione. 

Se l’Unione europea sta sviluppando politiche sempre più attente ad ambiente, sicurezza alimentare e zero sprechi, lo stesso non si può dire per la patria del fast-food, gli Stati Uniti. Qui ogni Stato decide in ordine sparso e le leggi cambiano quando i colori rosso e blu si avvicendano al governo. Ci sono Stati più o meno attenti: la California (California SB-54 Solid waste) vuole imballaggi riciclabili o compostabili entro il 2032, vuole tagliare quelli in plastica del 25 percento e fare in modo che i monouso si riciclino al 65 percento. Tutto questo riducendo le dimensioni degli imballaggi in plastica, usando quelli di carta o alluminio e contenitori riutilizzabili. Legislazioni simili ci sono anche in Delaware, Connecticut, Maine, Hawaii, Oregon, New York e Vermont. Ogni Stato alla fine però fa come vuole.

McDonald’s, Chipotle, Domino’s, Wendy’s, Burger King e Yum! Brands, (KFC, Pizza Hut e Taco Bell) sono state le sei catene di fast-food protagoniste dello studio annuale di Fairr, un network di investitori di ESG (Environmental, Social and Corporate Governance) e Ceres, una rete di centonovantacinque investitori istituzionali. Lo scopo è misurare la sostenibilità dei grandi marchi, e i risultati sono stati piuttosto incoraggianti. Il report ha mostrato che le sei catene di fast-food hanno ottenuto buoni punteggi per quanto riguarda le iniziative sul clima, ma non sul fronte dell’inquinamento idrico e della trasparenza nelle filiere di carne e di latticini, che continuano a presentare diverse zone d’ombra. 

«Sebbene le aziende abbiano avviato progetti per implementare pratiche agricole per ridurre l’uso dell’acqua e l’inquinamento, non riescono a ridurre significativamente gli effetti causati dalle catene di approvvigionamento di proteine animali – scrive Fairr nel report – e non sono in grado di mitigare sufficientemente i rischi fisici per la filiera della carne causati da siccità, inondazioni e rischi legati all’inquinamento delle acque». McDonald’s è finora l’unica delle sei società ad aver effettivamente condotto un’analisi del rischio idrico.

I risultati dello studio sembrerebbero quindi confermare l’idea di molti attori internazionali, attivisti e non, che vedono nella riduzione della plastica da parte dei colossi della ristorazione uno specchietto per le allodole e nulla più. L’azienda si dimostra attenta all’ambiente da una parte, ma non modifica radicalmente il proprio modo di agire e a livello strutturale cambia molto poco.  

Oltre il novanta per cento delle emissioni delle sei aziende analizzate proviene dalla filiera della carne e dei latticini. Solo due sono riuscite a tagliare su questo fronte portando le emissioni intorno al 50 per cento: Burger King e Yum! Sempre tra queste catene di fast-food e sempre in Europa è partita un’altra sperimentazione per ridurre la plastica usa e getta: sostituire i giochi per bambini che si trovano nei menù dei più piccoli con libri, frutta o giochi di seconda mano. 

McDonald’s e Burger King l’avevano iniziato a fare già nel 2019 e per il progetto pilota avevano scelto la Gran Bretagna. Il motivo? Una petizione di Change.org nella quale i consumatori chiedevano ai due colossi di virare verso una linea green. L’azienda ha fatto sapere che entro il 2025 tutti gli imballaggi saranno riciclati o sostenibili, giochi compresi. 

Un passo importante se si considera che ogni anno vengono venduti in tutto il mondo circa 1,2 miliardi di Happy Meal. Anche Burger King ha ammesso che la società è stata sollecitata a rimuovere i giocattoli di plastica da una petizione on-line lanciata da due studentesse di nove e sette anni. In Italia si può scegliere se avere il giocattolo o della frutta e in Giappone McDonald’s sta portando avanti un piano per il riciclo dei vecchi giochi. Materiali e prodotti della ristorazione stanno cambiando, la strada non è breve, ma se due bambine di sette e nove anni possono lanciare una petizione e sperare in un cambiamento, allora forse gli strumenti per agire sono (quasi) alla portata di tutti.  

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