Fino a pochi decenni fa, la sostenibilità ambientale era un tema per pochi. E non si chiamava neanche così, se vogliamo dirla tutta. Era un concetto protetto, valorizzato e sbandierato da una militanza ecologista “anti-tutto”, che flirtava con la visione pauperistica di dover fare enormi rinunce e sacrifici per dare un futuro al pianeta. Oggi, in piena crisi climatica, l’ambiente è diventato mainstream (in senso buono e non), l’ecosostenibilità è sulla bocca di tutti ed è stata progressivamente svuotata del suo inestimabile valore.
È ormai una sorta di «parola-valigia», come scrive l’economista e statistico Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile del governo Draghi, nella prefazione del libro “L’alfabeto della sostenibilità – 26 modi per essere sostenibili” (Egea) di Francesco Morace e Marzia Tomasin. Ognuno mette al suo interno ciò che vuole, la porta a spasso e la utilizza come meglio crede, in modo spesso opaco e non sincero. «Dobbiamo ribellarci all’idea che la sostenibilità sia un concetto astratto buono per una discussione da salotto, battendoci con ancora più convinzione affinché diventi la bussola della politica e delle strategie d’impresa», scrive Giovannini.
Sono proprio le strategie d’impresa il focus del libro sopracitato, che assieme all’omonimo podcast fa parte di un progetto di Utopia Impresa (fondata dalla stessa Tomasin). Sulla scia de “L’alfabeto della rinascita – 26 storie di imprese esemplari”, focalizzato sulle storie aziendali durante la fase acuta della pandemia, la prima parte del testo analizza ventisei esempi virtuosi di aziende italiane e internazionali (una per ogni lettera dell’alfabeto, da Alce Nero a Zorban, passando per Lavazza e Patagonia) che hanno (ri)consegnato concretezza al concetto di sostenibilità, cambiando i loro sistemi produttivi ancor prima di promuovere progetti “green” fumosi e contraddittori.
L’attenzione ai temi ambientali non può essere una bandiera da sventolare, una spilletta da esibire o un post da pubblicare. Ha un disperato bisogno di concretezza, di parametri, di misurazioni e di un approccio scientifico. Non è più una novità: smascherare i disonesti è sempre più facile e lo storytelling non funziona più. Dobbiamo passare, come si legge nel manuale, allo storydoing. Ne abbiamo parlato direttamente con Francesco Morace, co-autore del libro e sociologo che opera da decenni nel campo della ricerca sociale e di mercato.
Nel libro scrive che la sostenibilità è come una partita a scacchi: perché?
«Io sono uno scacchista. Considero gli scacchi il gioco della vita: è strategico, induttivo, propone delle svolte inaspettate. E ha una regola molto bella: nel finale delle partite, se un pedone – il pezzo che conta di meno – arriva nelle prime caselle dell’avversario, diventa una regina. E quindi si trasforma nel pezzo più importante. È quello che è avvenuto ad esempio con Greta Thunberg: nella partita della sostenibilità, anche i singoli cittadini possono rivelarsi importanti».
Quindi le varie pedine degli scacchi è come se fossero le aziende menzionate in “Alfabeto della sostenibilità”?
«Re e regina sono le aziende che lavorano bene con la sostenibilità da molto tempo. I cavalli sono le imprese che, in corso d’opera, sono saltate sulla scacchiera. Gli alfieri, che sono sei, sono gli ambasciatori, i portatori di un messaggio etico ed ecologico. Questi ultimi li associamo alle aziende che non hanno più di vent’anni – la prima è stata Banca Etica nel ‘99 – ma che sono nate con l’intenzione di avere valori diversi, etici e sostenibili. Poi abbiamo le torri, che sono due: loro sono le realtà che, prima di tutte le altre, hanno capito l’importanza del welfare aziendale. Parlo nello specifico del Lanificio Rossi di Schio con Alessandro Rossi nella metà dell’Ottocento e di Adriano Olivetti negli anni Cinquanta».
Ha menzionato Greta Thunberg: da sociologo, che visione ha dei movimenti come i Fridays for future? E cosa ne pensa della recente evoluzione (fatta di azioni dimostrative più estreme e simboliche) dell’attivismo ambientale? In un recente articolo abbiamo scritto che il governo «snobba» questi giovani «perché ha paura di loro». La sociologia ci insegna che le proteste per il clima, anche quelle più radicali, rendono la cittadinanza più consapevole e posizionano bene il riscaldamento globale nel dibattito pubblico.
«L’evoluzione del personaggio di Greta Thunberg è stata in parte casuale, ma ne è nato un grande movimento come quello dei Fridays for future: il pedone che diventa regina, per tornare alla metafora degli scacchi. Una storia personale che diventa un movimento in grado di diffondersi in tutte le generazioni, saldando il rapporto tra nipoti e nonni. Quei nonni che, negli anni Sessanta, combattevano per un ecologismo di altro tipo. Ora i ragazzi combattono contro il cambiamento climatico, nella speranza di avere un futuro migliore davanti. Per trent’anni abbiamo parlato di ecologia, ma era un tema di nicchia. Pensa anche allo stesso partito dei Verdi, che ha sempre preso il tre-quattro per cento. Ultimamente sono stati i ragazzi a fare la differenza».
Qual è, nel pratico, la differenza tra storytelling e storydoing nel campo della sostenibilità?
«Oggi le aziende devono dimostrare, vengono misurate. Si diventa protagonisti certificati della sostenibilità. Nello storytelling viene sempre prima la comunicazione: riguarda quelle aziende che lanciano un progetto di comunicazione (la piantumazione degli alberi, ad esempio), ma non riescono a dimostrare di aver cambiato le loro regole produttive al loro interno. Questo è stato il paradigma dominante negli ultimi vent’anni. Nel libro, invece, raccontiamo lo storydoing: ogni azienda di cui parliamo ha dimostrato di aver avviato un percorso – dal bilancio di sostenibilità al raggiungimento dello status di B-Corp – per entrare veramente nel novero delle aziende sostenibili».
Cosa un’azienda non deve assolutamente fare per comunicare le sue iniziative per il clima e l’ambiente?
«Farsi belli con progetti che non riguardano direttamente la propria attività produttiva. Il famoso ESG (Environmental, Social and Governance) è esteso: non bisogna andare fuori dal seminato, ossia da queste tre grandi dimensioni. Nel momento in cui davvero si organizzano iniziative importanti in queste tre dimensioni, bisogna fare in modo che siano gli altri a raccontarle: i consumatori o i dipendenti, ad esempio. Quello che funziona sempre meno è la celebrazione di se stessi in questo territorio molto scivoloso: ci mettiamo un attimo a smascherare un’affermazione non corretta».
Ha menzionato i Verdi. Perché ancora oggi, in Italia, hanno così poco consenso (alle ultime elezioni politiche l’Alleanza Verdi-Sinistra ha preso il 3,5 per cento, ndr)?
«Purtroppo, come spesso avviene in Italia, i dirigenti dei Verdi italiani hanno tutti più di cinquant’anni. È un gruppo di persone ancorato alle logiche vecchie, alla visione ecologista, militante e anti-tutto di vent’anni fa. Quando i giovani d’oggi hanno cercato di avvicinarsi a quella dimensione politica, hanno capito di appartenere a un altro mondo: le relazioni dirette tra le parti sono complesse».
Le cose non vanno meglio al governo: l’ambiente è trattato in maniera estremamente marginale dai tre partiti della maggioranza.
«Non c’è cultura politica più lontana dalla sensibilità ambientale di quella dei tre partiti al governo in Italia. C’è il mondo berlusconiano, che ha sempre visto l’ambientalismo come il fumo negli occhi perché la loro visione di crescita economica è strettamente legata al capitalismo. Il mondo di Fratelli d’Italia li considera radical chic, parte di una sinistra degradata e di una scatola di valori non prioritari. Stessa cosa la Lega, che ritiene queste culture non solo marginali, ma anche fastidiose. La sinistra, però, non è minimamente riuscita a costruire una valida alternativa su questi temi. Danno precedenza al lavoro rispetto all’ambiente, senza capire che le due cose sono collegate. Le nuove opportunità di lavoro sono specialmente nel campo ambientale. L’Italia non è esattamente un laboratorio di innovazioni».