Le zone umide sono uno degli ambienti più minacciati al mondo: stanno scomparendo più rapidamente delle foreste. Per tutelarle già il 2 febbraio 1971 veniva siglata a Ramsar la Convenzione sulle zone umide di importanza internazionale, uno dei primi trattati ambientali globali. Da allora ogni 2 febbraio, Giornata internazionale delle zone umide, ricordiamo la firma di quell’accordo e facciamo i conti con le wetlands che ancora ci rimangono: sempre meno.
«Basta guardare una mappa di settanta o ottant’anni fa per notare tanti toponimi che si riferiscono a zone umide che oggi sono completamente scomparse», racconta il professor Tommaso Anfodillo dell’Università degli Studi di Padova, referente del progetto europeo I-SWAMP dedicato al monitoraggio e alla protezione delle piccole zone umide delle regioni alpine.
Le mappe a cui si riferisce sono quelle del Cadore, nelle Dolomiti Orientali, l’area italiana scelta come campo di studio nell’ambito di questo progetto che è stato avviato a settembre 2022 e durerà diciotto mesi. L’iniziativa non è interessante solo per l’aspetto scientifico e di raccolta dati, ma soprattutto perché ha tra i suoi obiettivi principali il coinvolgimento delle comunità locali.
Affinché un intervento di ripristino e conservazione delle zone umide (ma non solo) sia davvero efficace e duraturo, infatti, non si può semplicemente imporre dall’alto e sperare che poi continui a camminare con le proprie gambe: è fondamentale ascoltare e (in)formare le persone che abitano le montagne.
Non possiamo fare a meno delle zone umide
Si definiscono zone umide tutti quegli ambienti in cui la presenza di acqua è regolare: laghi, stagni, torbiere, praterie umide. Che l’acqua sia evidente in superficie o impregni semplicemente il suolo, in ogni caso questa condizione determina la sopravvivenza di un ecosistema unico, con particolari specie vegetali e animali. Tra queste, alcune potrebbero avere bisogno dell’ambiente acquatico solo per lo stadio larvale (come capita ad alcuni anfibi e insetti, tra cui le libellule) o per riprodursi (è il caso dei tritoni).
«Escludendo gli ambienti marini e oceanici, si stima che a livello mondiale le zone umide occupino meno dell’un per cento delle terre emerse, ma ospitino circa il dieci per cento delle specie note», commenta Giulio Menegus, assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova nell’ambito del progetto I-SWAMP. Preservare le zone umide significa quindi, per prima cosa, difendere questa preziosa e ampia biodiversità.
Ma non solo: le wetlands sono un punto di interesse turistico, possono contribuire alla filtrazione e depurazione delle acque e aiutare a ridurre il rischio idrogeologico, perché nei momenti di piena funzionano talvolta come bacini di laminazione naturale, e possono anche evitare che grandi quantità di CO2 vengano rilasciate in atmosfera. «Questo aspetto è specifico soprattutto degli ambienti di torbiera», prosegue Menegus. «Nel corso dei secoli c’è un lento ma inesorabile accumulo di materia organica in decomposizione, per lo più resti vegetali: si crea così una grande riserva di carbonio. La tutela della torbiera evita che questo carbonio finisca in atmosfera sotto forma di CO2 o altri gas a effetto serra, cosa che accade invece se la zona umida viene distrutta».
Crisi climatica, pascoli e campi: cosa minaccia le zone umide
Ci sono numerosi fattori che negli ultimi due secoli hanno compromesso, a volte irrimediabilmente, le zone umide: la distruzione dell’ambiente naturale, le bonifiche, l’elevata presenza di bestiame al pascolo, l’uso massiccio di acqua a livello industriale, la costruzione di dighe, l’introduzione di pesci per la pesca sportiva in piccoli bacini. Nelle regioni alpine c’è uno svantaggio ulteriore, perché a causa della conformazione del territorio le aree umide sono tendenzialmente meno frequenti e poco estese.
In più sulle Dolomiti il suolo è ricco di rocce carbonatiche e ciò rende la permanenza in superficie di corpi d’acqua più difficile che in altri ambienti. Secondo il professor Anfodillo, però, i fattori che più hanno pesato qui sono due: l’intervento umano sul territorio e la crisi climatica. «Negli ultimi cinquant’anni le zone umide, essendo improduttive, sono state spesso eliminate e drenate il più possibile per fare spazio ad attività agricole o di altro tipo. Questo è molto evidente in pianura, ma anche in montagna c’è competizione per lo spazio. E poi c’è il cambiamento climatico: anche in quota le precipitazioni stanno diminuendo, le temperature sono più alte e così le piccole zone umide rischiano la scomparsa, perché c’è una forte evaporazione».
Per invertire la tendenza a volte basta poco
Quando una zona umida scompare non è sempre possibile ripristinarla. Ma quando si può, specialmente se l’area ha dimensioni contenute, bastano talvolta interventi semplici e poco costosi. Il problema è che non vengono fatti: perché le zone umide sono poco conosciute e considerate, ma anche perché spesso mancano risorse e personale negli uffici tecnici preposti. Ad esempio, si può ottenere un risultato importante semplicemente sbarrando regolarmente i solchi di drenaggio, se presenti, ovvero quei piccoli canali creati in passato per “asciugare” le torbiere e convertirle in pascoli.
È utile altrimenti sfalciare i pascoli a fine stagione e portare la biomassa a valle oppure recintare le aree che non devono essere calpestate da animali e persone. In ambienti che sono stati ricircondati dal bosco e sono entrati in ombra perenne, invece, può avere senso rimuovere selettivamente degli alberi. È importante anche creare dei corridoi ecologici tra zone umide, perché alcune specie, come le libellule, hanno necessità di muoversi tra una e l’altra.
Naturalmente non è sempre così facile: a volte per preservare una vasta zona umida servono azioni più consistenti, come l’eradicazione di specie aliene o la modifica dell’apporto idrico. Il fatto di agire su aree piccole o piccolissime, come fa appunto il progetto I-SWAMP, non deve però far pensare che il beneficio sia trascurabile: «Un gruppo di piccoli ambienti umidi ben conservati può presentare un numero di specie superiore a quello di un unico ambiente più grande. I piccoli ambienti umidi non sono secondari, insomma: sono centrali», afferma Menegus.
Gli obiettivi del progetto: corsi di formazione e attività nelle scuole
Il progetto europeo può contare sulle competenze congiunte di tre partner: oltre all’Università degli Studi di Padova, che si distingue come ente di ricerca con vocazione applicativa, ci sono il Geopark Karawanken austriaco, particolarmente esperto nel campo della divulgazione, e l’Institute of the Republic of Slovenia, un equivalente dell’Ispra italiano con forti competenze di tutela, studio e monitoraggio del territorio.
Dopo una prima fase di studio della biodiversità e di raccolta di dati scientifici nei siti individuati, gli obiettivi saranno realizzare piccoli interventi di ripristino con l’aiuto di volontari delle comunità locali, definire percorsi didattici per le scuole (una delle idee è che le classi possano “adottare” una zona umida e prendersene cura sul lungo periodo) e organizzare corsi di formazione sulla tutela delle zone umide per professionisti, Comuni, associazioni ed enti che si occupano di gestione ambientale.
Alla fine del progetto verrà inoltre prodotto una sorta di manuale multilingua per monitorare e preservare le zone umide: un’eredità a disposizione di tutti, così che i benefici e le buone pratiche del progetto possano essere replicati su altre aree dell’arco alpino. «Bisogna intervenire subito, il più possibile, su più zone possibili», sottolinea Anfodillo. «La situazione purtroppo è già molto critica: la riduzione della diversità complessiva del paesaggio è una delle cose peggiori che l’essere umano ha fatto nel corso della sua storia. Le zone umide interessate dal nostro progetto sono piccolissime, ma l’idea di fondo è cruciale: non dobbiamo assolutamente abbandonare niente della biodiversità che abbiamo ancora conservato».