Vediamo se possiamo imparare qualcosa, dal colossale equivoco che occupa i giornali italiani e i social dei politici italiani da un paio di giorni, un equivoco che Francesca Fagnani ha alimentato con una certa qual maestria.
Tanto per cominciare, partiamo da un dettaglio ovvio ma spesso frainteso: non esiste il giornalismo televisivo. La televisione è televisione: il suo scopo è fare spettacolo, non informare. Potrei citare un certo ospite televisivo e il suo «Formigli ha fatto fortuna, ne vorrebbe tutte le settimane di calci come i miei», per rendere l’idea di cosa sia la televisione. Mi limiterò a dire che pensare d’informarsi con la televisione è come pensare di friggere senz’olio.
Quindi, Francesca Fagnani fa televisione. Il suo pubblico è quello di Porta Venezia: perlopiù maschi gay, perlopiù col passatempo di fare gif e metterle sui social (ogni popolo ha l’oppio che si merita). Se così non fosse, non le verrebbe mai in mente d’invitare, alla prima puntata delle sue prime serate, Naike Rivelli, una che nessuno spettatore medio sa chi sia (è la figlia di Ornella Muti).
Qui dovremmo attardarci a fare considerazioni sulle prime serate, ma ridurrò al minimo questa divagazione facendo solo due domande: si può fare una prima serata che è un allungamento di brodo della seconda, in cui le interviste diventano lunghe come “Heimat”, e le gif te le fai da sola aggiungendo una ragazza che rifà un passaggio dell’intervista appena trasmessa? E: ti conviene metterti il pubblico in studio, dovendo di conseguenza ridurre al minimo il montaggio, quando la forza del tuo programma erano i tagli che facevano degli ospiti dei mezzi imbecilli e di te una con la battuta prontissima? Rispondetevi da soli, io ho l’equivoco di cui occuparmi.
Dunque Francesca Fagnani, che facendo televisione ha tra i suoi scopi essere ripresa dai giornali (giornali che ormai esistono perlopiù per appagare l’ego di chi fa televisione, e anche di questa codipendenza malata bisognerebbe parlare, ma non ora e non qui), lunedì manda ai giornalisti l’intervista di La Russa che martedì sarà nella prima puntata di “Belve” in prima serata.
Ottiene il risultato che cercava: martedì mattina i giornali hanno tutti la loro brava paginetta pubblicitaria gratuita di “Belve”, con il lancio delle dichiarazioni di La Russa.
Che cos’ha detto La Russa di epocale? Ci sono due risposte possibili. Per chi vede la vita come un posizionamento da curva di stadio, un ampio settore di pubblico che va dalla militanza arcobaleno su Twitter agli articoli su Linkiesta, nefandezze (accipicchia, nientemeno, acciderbolina).
Per chi si è preso il disturbo di guardare il programma, invece di rimirare il proprio posizionamento ideologico e quello di La Russa, poco e niente. Tra questo poco e questo niente, anche la cosa più femminista che abbia sentito da molti anni – ma poi ci arriviamo, prima restiamo alla questione del figlio gay.
Quando si arriva lì, Fagnani girava attorno al tema già da un po’, e aveva chiesto a La Russa se fosse fan di Mastroianni sempre, anche del Mastroianni di “Una giornata particolare”. La Russa ha già risposto che non gli piace quel film perché riduce l’omofobia a roba da fascisti (sintesi mia), mentre «purtroppo l’omofobia è un problema che hanno dovuto affrontare» in diversi tempi e contesti. Se non fossero a quel punto già dodici ore che l’Italia polemizza su La Russa omofobo, penserei: che bravo, «purtroppo l’omofobia», mica «purtroppo l’aborto», sa come non farsi tagliare i cinque secondi sbagliati nell’epoca delle gif. E invece.
La domanda sul figlio gay è quella che fai se sei Francesca Fagnani e vuoi far abboccare i giornali, e alla quale abbocchi se sei un commentatore di sinistra italiano. «Se suo figlio venisse da lei a dire che ha capito di essere omosessuale, non le chiedo come reagirebbe, ma cosa proverebbe?» (Fagnani legittima erede di quelli che vanno dai parenti dell’ammazzato a chiedere «cosa prova?»).
«Accetterei con dispiacere la notizia – ma la accetterei – perché credo che una persona come me, eterosessuale, voglia che il figlio le assomigli, però se poi non mi assomiglia pazienza. È come se mio figlio fosse milanista». È una risposta talmente impeccabile che Fagnani teme i giornali non abbiano il titolo, quindi insiste – ma il dispiacere è perché non le assomiglia o… – e La Russa ribadisce: «Le ho fatto un paragone preciso».
Il paragone è la tifoseria calcistica. Cioè: un gusto. Voglio che mio figlio abbia i miei stessi gusti. La Russa pensa che i milanisti siano contronatura? Se lo pensa, questa frase lo nasconde benissimo. Se lo pensa, ha un autore testi che consiglierei di ingaggiare alle Elly Schlein che dichiarano che bisogna ridurre il nostro consumo di elettricità (era l’intervista di Schlein che girava per social l’altroieri, e noi a scandalizzarci per la busonaggine milanista).
Qualcuno ha mai dato dei nefandi ai postmoderni che nelle bio su Twitter si dichiarano orgogliosi ed entusiasti dell’avere figli trans, dichiarandosi a loro volta trans? O a chi si dispera perché il figlio in effetti tifa una squadra di calcio diversa rispetto ai genitori? O a tutti quelli che i figli li fanno, con l’incubo che è un parto, invece di adottare i molti orfani che ci sono? Crediamo forse che non c’entri il volere figli che somiglino ai genitori?
Martedì, mentre lo sport nazionale era scandalizzarsi per La Russa, e tutti, da Schlein e Bonaccini in su, postavano il loro bravo penzierino indignato, io pensavo all’unico tratto bonacciniano di cui tutti parlano, le sopracciglia tatuate, e mi mettevo a guardare La Russa e Fagnani pensando che dovevamo emancipare le donne dal giogo estetico e invece abbiamo reso gli uomini altrettanto vanesi e insicuri.
Quando La Russa dice, delle donne della sua parte politica, «il livello estetico nel centrodestra è diminuito», non è questa forse una poderosa critica al berlusconismo, all’impiegare le donne per criteri estetici e non per le potenzialità di statiste? Non è più di sinistra che la presa per il culo, da sinistra, della Meloni che – come tutte in foto non elettorali – usava il fotoritocco sui manifesti elettorali?
Poiché abitiamo curve di stadio che c’impediscono ogni oggettività, non solidarizziamo con Meloni vittima d’un sistema che t’impone d’essere gnocca pure in ruoli in cui servirebbero altre qualità; allo stesso modo, non capiamo quant’è dirompente La Russa che dice la frase definitiva su tutto, sulla politica e su Sanremo e su quell’unicorno che è il giornalismo televisivo: «Quando una donna grassa, brutta e scema rivestirà un ruolo importante, a quel punto ci sarà la parità».
È l’affermazione più sovversiva che abbia sentito fare da anni, e la miglior critica culturale a un Sanremo in cui – se n’è già parlato in questa paginetta – c’erano la bianca e la nera e la madre e la nullipara, ma erano tutte rigorosamente gnocche, Fagnani compresa.
Fagnani, quando La Russa dice che gli uomini grassi e brutti e scemi hanno posti di potere e le donne no, si sta chiaramente chiedendo se il suo ospite non sia troppo idealista, e se verrà un giorno in cui lei potrà (o vorrà) andare in onda senza essersi fatta la messinpiega. Non apre questa divagazione solo perché la prima serata è già lunghissima, e non c’è tempo per l’autocoscienza.