Se permettete cominciamo dal 1997. No, non per dire che quello di quell’anno è stato uno dei migliori Sanremo di tutti i tempi (lo è stato). Neppure per dire che quell’anno c’era ospite David Bowie e quest’anno Angelo Duro.
Cominciamo dall’autunno del 1997, quando una me venticinquenne va a vedere uno dei punti più alti della stagione d’oro delle commedie romantiche di fine Novecento: “Il matrimonio del mio migliore amico“. Cominciamo da quella scena a tavola, che neppure doveva esserci, una scena senza senso in cui, in un film che non è un musical, tutti si mettono a cantare.
Cominciamo dalla me che esce dal cinema e mica ha Google: c’è solo una cosa che puoi fare, se nel 1997 vuoi sapere da dove vengano le canzoni stupende d’un certo film, ed è andare a comprarti il cd (che costa quel che ora costano tre mesi di streaming di tutte le canzoni del mondo). E, col cd col faccione di Julia Roberts, scoprire Burt Bacharach.
Cioè: scoprire che, come sempre accade con la cultura popolare, lo conoscevi anche se non lo conoscevi. Che la canzone dello spot del profumo e del film con quei due fighi di Newman e Redford l’aveva scritta lui. Che canzoni sue le avevi sentite ovunque da prima di nascere, nel primo film scritto da Woody Allen e in quella presa per il culo di James Bond che avevi visto prima di vedere qualunque James Bond.
Avevi venticinque anni, eri scema come i venticinquenni di oggi che scoprono «povero gabbiano» su TikTok. Avevi l’unico vantaggio che nessuno ti prendesse sul serio: potevi esser scema di nascosto. (Quello, di vantaggio, e la resistenza alla privazione del sonno: del Sanremo 1997 montavo un servizio alle sei di mattina per un programma che andava in onda alle sette; considerato che al terzo giorno del Sanremo 2023 sto già morendo di sonno senza che mi sia richiesto di uscir di casa prima dell’alba per andare in montaggio, direi che la geriatria è certificata).
Avanzamento veloce di ventisei anni (comunque meno della durata percepita d’una serata di Sanremo 2023), ed eccoci a ieri, quand’è morto Burt Bacharach ma a Sanremo c’erano ventotto canzoni nuove da fare e la pessimista in me già borbottava: ecco, Morandi aveva pure inciso una sua canzone, e invece ci toccherà questa gente che per scrivere un testo brutto ci si mette in quattro.
(La canzone di Tananai è caruccetta, ma a voi pare normale che abbia quattro autori per un testo che Hal David – il paroliere di Bacharach – avrebbe scritto con la mano sinistra mentre con la destra girava il sugo? La canzone di Tananai è caruccetta, ma al Sanremo ’97 c’era “…E dimmi che non vuoi morire“, che per il testo aveva un autore solo e resta insuperata nei Sanremo dei successivi ventisei anni).
Invece mi hanno sorpresa, e all’una di notte – là, dove ieri c’era Angelo Duro – hanno messo in scaletta ben un minuto di omaggio a Bacharach, quel tizio di cui basta sentire le canzoni per sapere chi fosse: non serve annunciarlo spiegando quanti fantastiliardi di visualizzazioni su YouTube faccia, come si fa con gli irrilevanti contemporanei. Un minuto in memoria di quando le canzoni erano roba che si pagava, e quindi preziose. Bacharach era di quel tempo lì, quello di “Fatti mandare dalla mamma” (che ieri Morandi ha rifatto, con la scusa che è una canzone che compie sessant’anni, mica che ogni tanto ci vuole una canzone così moschicida che non le conti gli streaming).
Per Bacharach un minuto solo, perché di più avrebbe segnato troppo la differenza coi Måneskin, quella band di cui tutti conosciamo i vestiti e nessuno le canzoni che era sul palco tre ore prima. (Pitchfork, che diversamente da me s’è preso il disturbo di sentirne il disco, ha scritto che non so quale verso di non so quale loro canzone sembra uno di quei commenti che lasci sotto a un post con la certezza che prenderai molti like, ed è una polaroid così a fuoco che è come se avessi sentito anch’io il loro disco. I Måneskin ieri sera hanno fatto un medley, e mi rimangio quanto avevo detto: il medley è l’ideale, se a nessuno frega niente di sentire una tua canzone per intero).
Lo so, lo so: dovrei parlarvi del discorso della Egonu, che appena entrata ha conquistato l’intera generazione che ha inventato la nostalgia dicendo che ha iniziato a giocare a pallavolo perché guardava Mila e Shiro. Ma non l’ho sentito: ho cinquant’anni, come Gianluca Grignani.
Mentre cantava del padre che al telefono gli chiede se, dovesse morire, il figlio che non lo vuole più vedere andrà al funerale, Grignani ha fermato tutto, e ci ha fatto vedere come si sta sul palco da professionisti. Si è scusato, ha detto che il fonico è bravissimo ed è colpa sua che gli aveva chiesto di abbassare troppo il ritorno e ora non sentiva più, e poi ha aggiunto un’indulgenza plenaria per il nemico della nazione tutta e dei floricoltori: a cinquant’anni so come gestirla, ha detto, a venti non sarei stato capace.
Mi sono chiesta per un istante se fosse un gesto di gran generosità verso Blanco, o di gran paraculaggine subito assai applaudita. Mi sono risposta quando a fine canzone Grignani ha preso il mazzo di rose (rosse, come quelle calciate da Blanco) e le ha lanciate in platea tra gli strilli di signore sovreccitate. Vi faccio vedere come si prende il consenso un italiano.
(L’altra mattina in conferenza stampa qualcuno ha chiesto ad Amadeus se intendesse bandire Blanco da Sanremo come Will Smith è stato messo al bando dagli Oscar. Amadeus, invece di dire che calciare delle fioriere e schiaffeggiare un cristiano son due categorie di teppismo un po’ diverse, ha risposto che, «mio parere personale», l’Academy con Smith era stata un po’ esagerata).
Ho cinquant’anni come Grignani, e da alcune decine credo che Sanremo dovrebbe essere di quattro serate. Due per sentire le canzoni la prima volta, una per le cover, e la finale. Il giovedì è ridondante, e io ho deciso che dovevo dormire.
Ho cinquant’anni, e forse sono l’unica italiana che di giorno lavora. Ieri in conferenza stampa comunicavano in toni trionfalistici i dati d’ascolto di Fiorello tra le due e le tre di notte, e io mi chiedevo: ma chi è il pubblico che sta sveglio le notti feriali a guardare Fiorello? Chi è il suo target? Gli Elkann? Angelo Duro? Sono ricchi di famiglia o sono gente che prende il reddito di cittadinanza?
Poi è arrivata la direttrice dei programmi diurni a dire che il podcast del marito della Ferragni, che questa settimana va su RaiDue alle sei di pomeriggio, è molto visto dagli uomini «di classe socioeconomica elevata» tra i cinquanta e i sessanta. Ma chi è l’uomo adulto benestante che alle sei di pomeriggio può mettersi a guardare la tv? Gianluca Vacchi? Elon Musk?
La conferenza stampa è sempre il momento migliore di Sanremo, e quella di ieri mattina era particolarmente soddisfacente, con due colettate: una sul marito della Ferragni con la foto di Bignami (là, dove un tempo c’erano Sinéad O’Connor e il papa), rispetto al quale Coletta spiegava che c’è libertà di testualità ma non di gestualità; e una su Angelo Duro, di fronte al quale secondo Coletta si ravvisava nella platea dell’Ariston «un doppio registro reattivo», sì metà pubblico era raggelato, ma l’altra metà della platea era «adesa» – adesa anche a lei e signora – al «codice irriverente con cui ha raccontato l’ambivalenza», per non parlare della «profonda quota di verità che ha consegnato al pubblico con grande coraggio».
Il coraggio d’essere un comico che non fa ridere? Non lo sapremo mai, giacché Coletta ha evidentemente visto un Duro diverso dal nostro, e sembra parli di George Carlin in quel monologo su Dio: «Ha creato un interrogatorio interno a ogni identità», spiega.
La conferenza stampa indica la via. Ieri Coletta si è innervosito per una domanda e, sembrando Salvini quando lamentava d’aver lavorato ad agosto, è sbottato: «Dedichiamo poche ore di sonno a noi stessi». Certo che sarei potuta restare sveglia a vedere Ariete, chiunque ella sia. Ma ho unito l’insegnamento di Coletta e quello di Chiara Ferragni, e mi sono pensata una che si dedicava nove ore di sonno.