Che scuola faranno i ragazzi che oggi frequentano le medie? Se in altri Paesi in realtà la scelta di un indirizzo avviene solo successivamente, quando si è più grandi, in Italia già a tredici anni di fatto si deve decidere quale potrà essere la propria carriera di studi e poi lavorativa.
Certo, non vi è nulla di assoluto, diplomarsi all’Ipsia non preclude l’iscrizione a qualsiasi facoltà dell’università, ma è pur vero che la gran parte degli studenti dei nostri atenei vengono soprattutto dai licei e, di conseguenza, da lì viene la maggior parte di coloro che avranno i salari maggiori. Checché ne dicano coloro che ancora pensano che convenga non laurearsi per guadagnare bene e subito.
Per questo è significativo osservare come cambia l’orientamento dei ragazzi e delle loro famiglie e, visti i grandi gap tra le diverse aree del Paese in tutti i campi, anche dove cambia.
Decisamente più delle metà degli alunni di terza media, il 57,1 per cento, farà il liceo. Vi è un aumento del 0,5 per cento rispetto all’anno scorso. È la conferma di un trend di lungo periodo. Nell’anno scolastico 2020/21 a sceglierlo era stato il 56,3 per cento, nel 2019/20 il 55,4 per cento, e prima ancora, nel 2016/17 il 53,1 per cento.
I numeri, però, variano molto in base alla regione. Il Lazio si conferma quella in cui vi sono e vi saranno più liceali, quasi sette studenti delle superiori su dieci. Seguono Molise, Abruzzo, Campania, Sicilia. In sostanza, al Sud solo la Puglia si piazza sotto la media nazionale.
Al contrario, la Liguria è l’unica regione settentrionale in cui questa media viene superata. Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna rimangono le tre in cui il liceo viene scelto meno. Nelle ultime due, anzi, lo fa meno della metà delle famiglie.
Qui sono di più quelle che prediligono gli istituti tecnici e professionali. Anche se proprio questi ultimi sono tra quelli che hanno subito il maggior calo di “consenso” nel corso degli anni, ancora più dei tecnici.
Di primo acchito viene spontaneo commentare questi numeri con le diverse vocazioni economiche delle aree del Paese. La regione in cui lo Stato, l’Amministrazione Pubblica, ha maggior peso, il Lazio, vede la più grande incidenza di liceali, mentre laddove l’industria, grande e piccola, è forte, al Nord, vi è una maggiore tendenza ad acquisire competenze tecniche.
Ma non può passare inosservato come questo gap si stia ulteriormente allargando. Se facciamo un confronto con le scelte effettuate prima del Covid, quelle per l’anno scolastico 2020/21, si può notare come nel Mezzogiorno, dove già vi era la più grande concentrazione di iscrizioni al liceo, queste salgano ancora di più, per esempio in Sicilia (+3,2 per cento), Campania (+2,3 per cento), Molise (+5,1 per cento).
Vanno in controtendenza scendendo rispettivamente del 0,6 per cento e del 0,1 per cento dove l’incidenza era già minore, in Veneto e Lombardia.
Sempre nel Veneto, oltre che in Emilia Romagna, sale di poco la preferenza per i professionali, che invece scende in modo ben visibile in Campania, in Sicilia e in tutto il Sud, con la Liguria, dato paradigmatico, che in questo si comporta come una regione del Mezzogiorno. Un ulteriore segno della deindustrializzazione di Genova e dintorni?
Insomma, la correlazione è chiara. A fare parzialmente eccezione è proprio il Lazio, dove d’altronde il gradimento per i licei era già ai massimi livelli.
Ma quali licei? Una delle novità di questi ultimi anni è il relativo declino del classico a favore degli scientifici – includendo nel conto quello a indirizzo sportivo e quello delle scienze applicate – e del liceo linguistico e delle scienze umane.
In particolare questi ultimi vedono un deciso aumento, che è ancora una volta più pronunciato proprio nelle regioni del Sud.
È probabile che molte famiglie che non avrebbero scelto in altri tempi un liceo per i propri figli oggi si direzionino verso indirizzi relativamente nuovi, ritenendoli più accessibili.
Detto questo, rimane sempre un grande divario tra quanti scelgono il classico, il liceo per eccellenza, al Centro-Sud e al Nord. In Sicilia sono più del triplo che in Emilia Romagna, il 9,6 per cento contro il 3,1 per cento.
Che implicazioni ha tutto questo? Nel Mezzogiorno di fronte a un divario economico che non accenna a ridursi, e che anzi continua ad aumentare, è sempre più chiaro che è meglio acquisire un buon diploma e poi magari una laurea, un asset che poi si potrà spendere in vario modo, che una competenza specifica che non riesce a trovare applicazione pratica immediata.
Del resto gli ultimi anni hanno mostrato che è solo l’istruzione universitaria, indispensabile nei servizi avanzati e nell’industria ad alto contenuto tecnologico, a poter garantire i salari maggiori e qualche possibilità di sfuggire alla precarietà, in particolare per i giovani.
E proprio laddove tali settori sono di fatto assenti si assiste a un incremento di coloro che intraprendono gli studi che più predispongono a lavorare in essi.
Cosa produce questa apparente contraddizione? L’emigrazione. Sia quella verso l’estero che quella interna. La percentuale di laureati tra i venticinque e i trentaquattro anni che si trasferiscono in altri Paesi è passata dal 2012 al 2021 dal 28,5 per cento al 45,7 per cento.
E all’interno dell’Italia, invece, si produce un massiccio afflusso a favore di quelle aree in cui i settori trainanti sono presenti, ma spesso soffrono la mancanza di manodopera altamente istruita. Lombardia ed Emilia Romagna insieme hanno avuto dal 2012 in poi un saldo positivo in entrata di circa ottantamila giovani 25-34enni con istruzione universitaria, mentre Puglia e Sicilia ne hanno avuto uno negativo di più di trentamila unità e la Campania uno maggiore di quarantamila.
In questo senso tali movimenti migratori sono perfettamente comprensibili. Non sono questi a dover scandalizzare, sono un semplice sintomo, così come probabilmente sono un sintomo le scelte delle famiglie sulle scuole da fare frequentare ai figli.
Si tratta di una conseguenza della situazione strutturale dell’economia, del gap secolare che divide Nord e Mezzogiorno.
Finché questo non sarà chiuso, nelle regioni meridionali sarà anzi un fattore di riequilibrio necessario, quasi salvifico, potremmo dire, puntare su competenze più elevate e consentire loro di essere spese altrove.