In Italia oggi ci sono più di tremila esemplari di lupo, il che è un dato estremamente positivo visto che all’inizio degli anni Settanta erano appena trecento. Ecco perché gli avvistamenti sono sempre più frequenti, anche molto vicino alle nostre città. Nel libro “Nelle terre dei lupi” (PIEMME), in uscita il 7 febbraio, la zoologa specializzata in conservazione della biodiversità animale e “lupologa” Mia Canestrini traccia la nuova mappatura della presenza del lupo in Italia. Seguendo le tracce dei branchi, dalla Valtellina all’Irpinia passando per la Toscana, la ricercatrice delinea la nuova geografia italiana dei lupi, le loro abitudini e il loro ritrovato rapporto con l’uomo.
«L’Europa è il subcontinente più antropizzato del mondo e, sebbene ci siano aree geografiche meno popolate di altre, il nostro paesaggio naturale è stato profondamente trasformato per secoli. L’ambiente in cui viviamo è a misura d’uomo, di agricoltura, ma non di natura», ci spiega Canestrini per inquadrare il contesto in cui ci troviamo a convivere con le altre specie. «Gli animali che vivono in Europa e in Italia si trovano immersi in una matrice antropica urbana alla quale, esclusi i casi di estinzione, si sono adattati», aggiunge.
I lupi, spiega l’esperta, «sono animali molto “plastici”, come si dice in ecologia, quindi il motivo per cui fino a una cinquantina di anni fa ce n’erano così pochi era perché venivano cacciati. Fino agli anni Settanta erano infatti considerati animali nocivi, da sterminare con ogni mezzo, inclusa la caccia che non solo era consentita, ma anche incentivata. Una volta poi che la caccia è stata prima sospesa e poi vietata, nel 1971, hanno cominciato a espandersi di nuovo sul territorio, dimostrando la loro capacità di adattamento e colonizzando prima tutte le montagne degli Appennini, poi l’arco alpino, quindi la collina e infine la pianura».
I lupi effettivamente in Italia oggi sono (quasi) ovunque: in Toscana ci sono branchi che vivono letteralmente in riva al mare, nella zona di Orbetello a la Feniglia in provincia di Grosseto o nel parco di San Rossore in provincia di Pisa. Negli scorsi mesi sono state poi numerose le segnalazioni nella Bassa Lodigiana, ma anche a Roma Nord. «Basta che ci sia un po’ di copertura boschiva e un po’ di cibo come cinghiali, daini, ma anche ratti o uccelli marini: i lupi sono di bocca buona, riescono a sopravvivere sfruttando qualunque cosa sia commestibile. Il fatto è che pianure e coste in Italia sono molto abitate, i lupi in montagna sono altrettanto presenti, ma meno visibili perché coperti dal bosco e perché ci sono meno occhi umani ad osservarli. Si ha una percezione di molti lupi che vivono in pianura o in collina semplicemente perché ci sono più segnalazioni».
D’altra parte noi uomini tendiamo a colonizzare e ad espanderci, oltre alle città e ai paesi infatti sono poche le zone lasciate intatte: case isolate si trovano in tutta la penisola, così come alberghi o rifugi in montagna e in collina, è inevitabile che i lupi incontrino i nostri insediamenti. C’è poi un altro fattore: «I lupi che vivono nei luoghi più antropizzati si abituano all’uomo, capiscono che non è un pericolo, almeno non in termini assoluti, e non se la danno più a gambe levate come quando venivano sistematicamente cacciati: adesso se un lupo incrocia una persona la osserva con curiosità, oppure se ne va, ma molto tranquillamente, e questo è un comportamento che a molti inquieta».
Il comportamento che mette più in apprensione probabilmente è la ricerca di cibo, ma se possono creare dei danni agli allevatori, i lupi non ne danno a noi, non siamo una preda, ma un elemento del contesto che, in qualche modo li attrae: non solo perché li incuriosisce, ma anche perché è fonte di cibo in maniera indiretta.
L’Italia, sottolinea Mia Canestrini, è un Paese «con una densità di prede selvatiche molto alta: cinghiali e caprioli ad esempio sono aumentati in modo esponenziale negli ultimi decenni». I lupi, però, fanno una cosa che hanno sempre fatto da quando convivono con gli esseri umani: «Se fiutano l’odore di cibo, anche vicino a un accampamento urbano, sono curiosi e si avvicinano. Anche perché è più comodo per loro mangiare qualcosa di già pronto anziché andarsi a cacciare le prede: ad esempio sono molto attratti dai rifiuti o dagli scarti dell’allevamento, come può essere una placenta di una vacca buttata nella letamaia in montagna o in campagna. Ma anche dalle crocchette di un animale domestico lasciate in giardino e così via, sono animali molto opportunisti e comodi, ragionano in termini di risparmio energetico».
Il lupo è una specie protetta a partire dagli anni Settanta e l’Italia ha fatto un ottimo lavoro con il suo ripopolamento: «Scegliere di convivere con un predatore non è una scelta facile perché sono animali che, soprattutto all’allevamento, creano dei problemi ovvi, quindi per il sistema paese significa farsi carico di misure sia di prevenzione che di risarcimento danni». Questo grosso sforzo oggi potrebbe però venire messo in crisi dal cambiamento climatico, che ci rende in qualche modo meno efficienti rispetto al tracciamento degli esemplari.
«Ci sono due interferenze dei cambiamenti climatici con il ritorno del lupo: il primo è che con l’aumento delle temperature viene meno un elemento di selezione naturale importante che è il freddo. Le nevicate invernali prolungate e abbondanti, fino a qualche tempo fa, portavano alla morte diversi esemplari che erano cresciuti male, erano sottopeso oppure con la rogna. Ancora non ci sono dati su cosa questo porti in concreto, ma si tratta di comunque di un’interferenza nel processo di selezione naturale».
L’altra grossa interferenza, aggiunge l’esperta, è quella che avviene rispetto a una delle tecniche di avvistamento dei lupi che abbiamo a nostra disposizione: «Sto parlando dello snow tracking, ossia il tracciare i lupi sulla neve. Serve per contarli e, solitamente, si svolge dopo una nevicata: di norma si lasciano trascorrere ventiquattro o quarantotto ore, e poi si inizia a percorrere un sentiero che si è scelto a tavolino. E quando si trova una traccia, la si segue al contrario per non disturbare o “inseguire” gli animali».
Questo permette «di farsi un’idea sia della dimensione del branco, sia della direzione verso cui si sta muovendo. Ovviamente in tutti quegli ambienti di montagna e collina dove prima nevicava spesso e questa tecnica si poteva usare regolarmente, adesso si fa più fatica ad utilizzarla perché in molte zone d’Italia non nevica più e quindi si possono fare al massimo una o due uscite di questo tipo, che non sono sufficienti a raccogliere dati statisticamente validi».
Mia Canestrini ci ha spiegato che «senza le nevicate abbondanti invernali viene meno una tecnica di raccolta, e quindi di studio, attraverso cui ci si può fare un’idea di quanti siano, di dove passino, di quale sia il loro territorio e delle principali direttrici di spostamento, almeno per quanto riguarda l’inverno. Non bisogna dimenticare che la raccolta di dati sul lupo e il suo monitoraggio è una prescrizione dell’Unione europea, che ci dice che dobbiamo monitorare regolarmente le specie protette».
Una carenza di dati consente infatti solo una mappatura parziale ed è insufficiente anche in termini di tutela e prevenzione: «Le informazioni in nostro possesso oggi non servono più alla salvaguardia diretta, come quando ce n’erano cento esemplari e di quei cento si sapeva tutto. E se ne moriva uno era un bel danno. Contarli nel 2023 è diventato un pochino meno importante, ma è essenziale sapere dove sono distribuiti e dove la convivenza con l’uomo ha più impatto su di loro: ad esempio se vivono vicino a strade di lunga percorrenza e quindi rischiano di essere investiti. A grandi linee, tutti questi dati servono per avere un quadro generale dello stato di salute della specie su scala nazionale».