Les jeux sont faitsNo, Giulio Cesare non ha detto: «Il dado è tratto» (e non usato neanche il latino)

Secondo Plutarco, il grande condottiero romano avrebbe pronunciato in greco la frase “anerríphtho kýbos” che è un imperativo, e si riferiva al gioco d’azzardo in generale

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«Il dado è tratto» è la celeberrima sentenza proferita da Cesare il 10 gennaio del 49 a.C., di ritorno dalle Gallie alla testa delle sue legioni vittoriose, al momento di varcare il Rubicone tra Rimini e Cesena per dare inizio alla guerra civile contro l’ex alleato Pompeo. O almeno, così la frase è riferita da Svetonio, che ovviamente la riporta in latino, iacta est alea (come compare nel cartiglio sotto lo stemma del comune di Rimini, con la variante grafica di origine medievale dalla j al posto della i), poi divenuta alea iacta est (così, sempre con la j, nello stemma della provincia di Forlì-Cesena). Anche se, stando al suo (di Svetonio) coevo Plutarco, la frase fu in realtà pronunciata in greco, la lingua colta dell’epoca, e aveva una forma leggermente diversa, anerríphtho kýbos (citazione, pare, da una commedia di Menandro), che è un imperativo, “sia gettato il dado” (e a questa lezione si attenne Erasmo da Rotterdam per sostenere che l’espressione tramandata in latino sarebbe un errore di trascrizione che ha trasformato l’imperativo futuro esto nell’indicativo presente est).

In ogni caso, rimane la perplessità sulla traduzione-tradizione italiana che ha introdotto quell’astruso “tratto” in luogo dei più perspicui “lanciato, gettato, scagliato”, che peraltro sarebbero il senso proprio di iactum, participio passato del verbo iacĕre (all’origine di una numerosa famiglia lessicale: proiettare, proiettile, reietto, deiezione…).  “Tratto” è invece in italiano il participio passato di trarre, che il vocabolario Treccani registra come “sinonimo antiquato o letterario di tirare, col significato di scagliare, gettare lontano”, ma che come significati principali ha quelli coerenti con il verbo latino da cui deriva, trahĕre, ossia tirare nel senso di trascinare, “muovere cosa o persona esercitando su di essa una forza di trazione” (Treccani). (In altri termini, l’agente del verbo trahĕre esercita una forza che perdura per tutto il tempo dell’azione e mantiene sempre un legame fisico con l’oggetto, mentre nel caso di iacĕre l’azione è istantanea e la forza si esaurisce nel momento in cui l’oggetto si distacca dall’agente: nella lingua italiana entrambe queste azioni possono essere rese con il verbo tirare, ma il latino è più preciso e conserva la distinzione).

Il problema vero, però, nasce con il sostantivo alea. Che non è esattamente il dado (espresso in latino con i vocaboli talus o anche tessera), ma il gioco dei dadi, e genericamente il gioco d’azzardo (consentito a Roma durante i Saturnali, dal 17 al 23 dicembre). Cesare sapeva di giocare d’azzardo quando, ignorando l’altolà del senato, varcava il fiumiciattolo più famoso della storia, che segnava il confine tra l’Italia e la Gallia Cisalpina. Affrontava il rischio. Alea iacta est significa che il gioco è iniziato, e non si può fermare. È come se avesse detto “Les jeux sont faits”, l’annuncio del croupier quando la pallina gira, chi ha puntato ha puntato, nulla si può più cambiare, è solo questione di vedere dove la sorte farà cadere questa pallina. Di qui il senso di irreversibilità, di scelta senza possibilità di ritorno, intrinseco alla locuzione latina come al suo corrispettivo nell’italiano d’oggi, che ha dato altresì origine allo spin off “Varcare il Rubicone”, nel senso di rompere gli indugi e prendere una decisione definitiva.

Nel 49 a.C. la pallina cadde sul numero puntato da Cesare, che in pochi mesi sarebbe diventato il padrone dell’Urbe, “dittatore democratico” secondo la ormai classica caratterizzazione di Luciano Canfora. È la fortuna che arride agli audaci, nonché, in questo caso, al leader più abile militarmente e politicamente. Ma mentre la pallina stava girando tutto era ancora possibile, era il momento dell’imprevedibilità che per definizione accompagna l’azzardo. Di qui il senso di incertezza che si lega all’irrevocabilità mescolandosi nei sottintesi dell’espressione usata da Cesare.

Azzardo, rischio, incertezza sono i valori semantici, connessi al vocabolo alea, anche depositati nella corrispondente locuzione italiana e trasfusi nell’alea accolta nel nostro vocabolario (“correre l’alea” = tentare la sorte), nonché nelle parole che ne derivano, aleatorio e aleatorietà. Prendiamo il caso di un “contratto aleatorio”, per esempio un’assicurazione sugli infortuni: è un “contratto in cui il valore della prestazione o controprestazione dipende da un fattore d’incertezza, che si può risolvere a vantaggio dell’una o dell’altra parte, caratterizzato pertanto dall’assunzione del rischio come elemento determinatore dell’oggetto” (Treccani). Spesso però, ecco il punctum dolens, il concetto di aleatorietà è chiamato in causa a sproposito.

Se l’esito di una puntata alla roulette si può a buon diritto definire aleatorio, nel senso che è totalmente affidato alla fortuna e quindi incerto, e se le proiezioni elettorali basate sui primi seggi scrutinati sono aleatorie non perché dipendano dalla dea bendata (dipendono dalle scelte degli elettori, a volte anch’essi bendati) ma perché un campione troppo esiguo non garantisce alcuna certezza, rientrando quindi nell’accezione più estesa del termine, altrettanto non si può dire dei casi – e sono i più – in cui aleatorio e aleatorietà sono usati senza alcun nesso con la loro pregnanza.

Il caso più ricorrente è probabilmente quello del “discorso aleatorio”. Che cosa vuol dire “discorso aleatorio”? Che è un discorso azzardato, rischioso, affidato alla fortuna? Che è un discorso incerto? Sì, magari incerto nel suo procedere, concettualmente zoppicante, ma questa incertezza non dipende dalla buona o malasorte, non è riferibile a fattori esterni, bensì è interna al discorso stesso e a chi lo sviluppa. Non è l’incertezza dell’azzardo. Va bene estendere la portata semantica delle parole, ma a forza di estenderle si perde il rapporto con il senso.

Un esempio, dall’intervista data da un manager a una rivista di settore: «Abbiamo bisogno di promuovere il made in Italy, ma attualmente rischia di essere un discorso aleatorio perché non si vedono risvolti pratici e concreti». Aleatorio? Verosimilmente questo signore intendeva che è un discorso campato in aria, e viene il sospetto che nella scelta lessicale agisca la suggestione di una blanda forma di paronomasia, laddove aleatorio, senza alcun nesso con l’etimo, può richiamare alla mente qualche cosa di alato e materializzare l’immagine di un oggetto volteggiante qua e là nel cielo come un aquilone senza meta.

Volteggiando nel linguaggio corrente, il termine aleatorio, da “azzardato-rischioso-incerto”, diventa così (improprio) sinonimo di “vago, volubile, indefinito, inconsistente, instabile, infondato, improbabile, inattendibile”. Ma allora perché non usare questi aggettivi? Vabbè, si dirà, è l’uso: l’uso modifica le parole, le stravolge, impone nuovi significati. Maestro di precisione, fautore dello stile analogista e quindi devoto al principio della ratio, in opposizione agli anomalisti che prediligevano la consuetudo, lo scrittore Giulio Cesare disapproverebbe. E forse si preparerebbe a lanciare un altro dado.

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