Ode al cibo Il nostro San Valentino

Che siate innamorati o no, il 14 febbraio quando arriva arriva. Ma si può amare non solo una persona, ma anche una cosa. E noi, si sa, amiamo il cibo in ogni sua forma. Soprattutto se ha la forma del ricordo

Foto di Kyle Glenn su Unsplash

La redazione di Gastronomika ha un unico e solo grande amore: ed è il cibo. Ecco quindi tutte le nostre dichiarazioni, in forma di piatto, morso, profumo, sensazione, ricetta. Se amore dev’essere, che sia per qualcosa di buono, che non ci tradirà mai.

Caro Gorgo,
dal carattere morbido ma capace di colpire con stoccate amarognole. Tu, a tratti irresistibile con la tua vena piccante ma mai spudorata. Con questa lettera di San Valentino voglio dirti che sei sempre l’unico per me.
Ti ho conosciuto bambina, a casa di mia nonna, quando l’imbottigliamento del vino era un rito famigliare. In cortile tutti insieme, nonni, genitori cugini, riuniti dopo attento studio del calendario lunare. Ognuno il proprio ruolo: io ho scalato tutte le posizioni più ambite, dall’umile sciacquatrice di bottiglie, fino al vertice della piramide, distributrice di “rustie”. Ero io a preparare le fette di pane morbido (il pane delle nonne è sempre morbido) ricoperte con due strati della tua debordante personalità. E ci affondavo i denti e mi facevo i baffi, sentendomi coccolata e protetta, rifiutando anche il corteggiamento del salame, sempre lì pronto a tentarmi. Ma io niente, fedele, ostinata nello scegliere ancora te.
La nostra storia ha accompagnato tutta la mia vita. Ricordi quei tira e molla della giovinezza, quando cercavo di tenerti lontano per colpa di una dieta e tu, puntualmente, tornavi presentandoti insieme a un gambo di sedano per apparire più innocuo? Solo quella piccola crisi, durante uno dei miei soggiorni francesi, quando uno spocchioso Roquefort ha provato a dividerci, senza naturalmente riuscirci.
Insomma caro Gorgo, mi fai ancora sentire le farfalle nello stomaco.
Buon San Valentino
Federica Cocchi

Chi ha detto che il gelato ha una stagione? Io amo il gelato, lo vorrei sempre, forse ancora più di inverno rispetto all’estate. Perché lo trovo poco impegnativo e sempre goloso, non mi stufa mai. Posso cambiare gusto ogni volta e non mi stancherò mai di andare alla ricerca della gelateria che fa il miglior pistacchio secondo me, il miglior gianduia secondo me, la panna montata più soda sempre ed esclusivamente secondo me. Così come salendo dalla spiaggia con papà mangiavamo un gelato ancora con le goccioline di acqua salata sulla schiena, oggi il gelato da passeggio anche se le mani mi si congelato è il mio piccolo personale refugium peccatorum.
Chiara Buzzi

Tra i cinque e gli otto anni d’età fui proprietario di un appezzamento di terreno un metro per due. Una striscia di terra a confine con altre proprietà, a lato del fico d’India che cresceva un po’ come gli pareva. In quella terra, ogni anno, venivano interrate le piante di fragole che, a detta di mio nonno, erano mie e di nessun altro nipote, figlio o essere umano.
Di quelle fragole seguivo la maturazione, cercavo di capire perché le foglie fossero tomentose e non mi spiegavo come mai dei frutti così buoni non crescessero sull’albero come le mele. E ricordo bene la sensazione che si creava quando quel mucchio di acheni diventava frutto (sì, è un falso frutto la fragola, ma non è il momento di fare i “precisetti”).
Era qualcosa di ancora più bello dello stupore: c’era curiosità, desiderio, ma anche voglia di spremerci sopra un’arancia, spargere dello zucchero e aspettare il momento della macedonia di fragole del dopo pranzo.
Amavo tutto di quelle fragole: dall’idea che venissero dalla terra, al cambio di colore che facevano da un giorno all’altro, fino al piacere che mi dava poterle portare a tavola che, anche un po’ per questo motivo, rimane il mio posto preferito del mondo.
Alessio Cannata

La sua storia inizia già ai tempi dai Romani ma ci sono voluti secoli perché la ricetta venisse perfezionata e diventasse il piatto forte di ogni nonna bolognese che si rispetti. Compresa la mia.
Pasta fresca all’uovo, ragù e besciamella sono gli ingredienti principali, ma sebbene la ricetta sia stata depositata alla Camera di Commercio di Bologna, le varianti sono infinite e il fattore umano, aggiungo io, insieme all’amore, la pazienza e la cura sono davvero quelli che fanno di questo piatto il comfort food che mi ha accompagnata, per mano, quasi quotidianamente fino all’adolescenza. Da piccola ho davvero avuto il coraggio di ordinarlo in ogni paese estero che ho visitato, di fronte agli sguardi attoniti dei miei genitori: le lasagne di mia nonna sono per me, ancora oggi, inimitabili, ma prima di arrivare a questa consapevolezza ho pensato di trovare un po’ di loro davvero in ogni dove.
La sfoglia, verde o bianca, non è tirata a macchina, ma a mano, al matterello, con la fatica che richiede stenderla fino a poter guardare attraverso. Il ragù, sugoso e saporito al punto giusto, deve cuocere a lungo, a fuoco basso e le carni che si utilizzano per prepararlo, con loro con le rispettive proporzioni, sono a discrezione del proprio gusto e tradizione di famiglia.
Qualsiasi sia il segreto che sta dietro a questa, per me, magica preparazione, riconoscerei la mia versione del cuore anche da mille miglia di distanza: quel profumo che esce dal forno, quel sapore, quella crosticina che si forma tutto intorno e che stacco direttamente dalla teglia e quella sensazione di poterne mangiare senza averne mai abbastanza. Risveglia le mie percezioni sensoriali che come ami pescano nella mia coscienza affettiva e nella mia memoria: casa, famiglia, infanzia, Natale, ma soprattutto lei, nonna Lucia.
Maria Vittoria Caporale

Mi faceva schifo tutto. Un po’ perché in ospedale il cibo faceva schifo davvero, un po’ perché stavo male. Fisicamente, con la nausea che non mi abbandonava da mesi, e mentalmente, con l’angoscia che la mia bambina sarebbe nata troppo presto. Tre mesi prima di quanto avrebbe dovuto. Piccola, troppo piccola per poter affrontare il mondo. Per questo ogni giorno, ogni ora che rimaneva nella mia pancia era prezioso. E per questo dovevo mangiare, almeno un po’. E lo facevo, ma mi faceva schifo tutto. Tranne i biscotti ungheresi fatti dal mio panettiere. Me li portava il mio papà, quando veniva a trovarmi. Arrivava con quel sacchettino, io lo aprivo e usciva un profumo mandorloso e cioccolatoso che mi faceva sentire meglio. Anche alla bambina piacevano: come mangiavo un biscotto iniziava a muoversi nella mia pancia, con gioia mia e delle ostetriche. L’altro giorno sono entrata in panetteria e li ho visti, ovviamente ne ho comprato un sacchetto. E quando sento quel profumo mandorloso e cioccolatoso ritrovo tutte le sensazioni di quei giorni.
Daniela Guaiti

Questa è la confessione di un tradimento gastro-sentimentale. Da pugliese, sento che dovrei dichiarare amore eterno a focaccia e panzerotti, a favetta e pancotto. Ma, seppur amandoli incondizionatamente, il mio piatto del cuore viene da lontano, da un’altra regione in cui mi sono sempre sentita a casa: l’Emilia. I tortellini in brodo sono il filo rosso di tutti i miei ritorni a casa, di tutti i malanni e le celebrazioni, anche quelle d’agosto a 40 gradi. Se mia madre ha voglia di coccolare qualcuno, prepara il brodo di carne. Lo filtra per bene. Diventa quasi trasparente. Lascia qualche osso con del midollo saporito. Poi, quando è il momento di andare in tavola, mette a cuocere i tortellini, quelli freschi. Guai a prenderli dal banco (anche se in Gdo ci sono marchi perfetti custodi della tradizione emiliana). Li cuoce e li tuffa nel brodo. Nel giorno del mio onomastico, il giorno dopo Natale, per servire il brodo di carne, portata tradizionale del giorno in cui “dobbiamo stare leggeri”, tira fuori anche la zuppiera del servizio buono. Io son lì, che godo di ogni dettaglio. Aspetto il piatto, servito rigorosamente senza formaggio per me, perché il sapore mi penetri, puro, fino in fondo al mio, di midollo. Godo di ogni cucchiaio. E che sia inverno oppure estate, ogni brodo di carne è ritorno, casa e amore.
Stefania Leo

La mia madeleine è il pane di semola siciliano: il filone o la mafalda, poco cambia, entrambi con i semi di sesamo sopra. Il filone però era più cotto, un sapore più adulto che mi incuriosiva con quelle note amaro/tostate della crosta che al tempo stesso mi creavano ripulsa. L’Eden proibito era la mollica: saporita, gialla e calda quando era fragrante di sfornata. Una mollica così nel pane di Milano non la trovavo.
No, Roberto! Non si infila il dito per scavare la mollica! Rimane il buco e poi gli altri cosa mangiano, il pane bucato!?
Giusto, non si fa.
Nella dispensa di legno coi pannelli di vetro smerigliato le zie di mamma posizionavano i filoni, integri, dopo avermi redarguito col sorriso per l’inopportuno traforo.
P.s.
Bastava girare i filoni, scavare velocemente, e poi rigirarli col buco rivolto alla parete della dispensa. Le apparenze e i capricci golosi salvi entrambi.
Roberto Magro

Amo il caffè. Amo il suo profumo, amo il suono della caffettiera, amo la mia vecchia tazzina.
La mia preparazione avviene rigorosamente con la moka, perché è un rito e traggo beneficio da ogni singolo passaggio.
A volte siamo in due in cucina mentre lo preparo: il marito, il gatto del vicino, l’amica di passaggio, e si chiacchiera prima, durante e dopo, anche col gatto.
Altre volte sono sola, e quei minuti di attesa si riempiono di riviste sfogliate, libri di ricette aperti a caso, liste della spesa buttate giù su un pezzetto di carta paglia.
Arriva il magico momento del borbottio: non so mai bene quando spegnere la fiamma, mi sembra un perenne terno al lotto, ma il risultato è sempre buono. Merito della polvere migliore che sia, il macinato fresco del bar vicino a casa, l’unico a garanzia di risultato e di risate nel momento dell’acquisto, che fanno parte del rito anche quelle.
Mi piace affacciarmi alla finestra mentre lo sorseggio, lentamente. Studio le case vicine, la gente che cammina per strada, i ciclisti, le nuvole, le piante e i fiori del giardino. Ogni giorno tutto sembra identico a com’era nel precedente eppure osservo lo scorrere delle stagioni.
Ecco, finito l’ultimo goccio: adesso sono pronta e carica. Fino al prossimo caffè.
Linda Mambelli

Ogni pomeriggio, verso le 17, si alzava dalla sua poltrona. Appoggiava il giornale sullo scalino che aveva accanto e si toccava i baffi. Sembrava ragionare su qualcosa, al di là dello spazio stretto della stanza. Era presto, è vero. Ma l’ora di cena si avvicinava. E da quando era andato in pensione, qualche anno prima, e la sua salute non gli permetteva più di condurre la vita che era solito fare, i fornelli erano diventati il suo chiodo fisso. «Ora preparo la cena», diceva. E, per qualche ora, quello diventava davvero un mondo diverso. Il ricordo, quando tornavo a casa, era quello di padelle sfrigolanti che profumavano di buono. Un leggero soffritto di cipolla, i pomodorini rossi e maturi che al contatto col fuoco cominciavano a cantare. Ogni sera a casa c’era un primo piatto diverso. Perché a casa mia, la pasta si è sempre mangiata per cena. Pazienza, se fa ingrassare prima di andare a dormire. «Non serve tenere il conteggio dei minuti. La pasta ti parla quando è pronta». Mio padre era così. Chiacchierava con il cibo. E questa cosa, devo essere sincera, me l’ha trasmessa. Il suo lascito per me. Non aveva imparato subito a cucinare. Si era messo ai fornelli tardi, per necessità. Ma mangiare gli piaceva. Era una delle cose che amava di più. Siamo andati tanto al ristorante da soli, io e lui. Era un modo semplice per alimentarci, certo. Ma anche per condividere un qualcosa. O forse anche per scongiurare il periodo in cui io, sedicenne, fui presa dalla bestia nera dell’anoressia. Forse, quel suo modo di cucinare, sempre con quell’ingrediente insostituibile che è l’amore, era la sua maniera di nutrire la mia anima. Qualche tempo prima di andare via, aveva espresso a mia madre la voglia di mangiare un piatto cucinato da me. Non ho fatto in tempo. E forse questo è il motivo per cui ora scrivo di cibo e racconto di cibo. È questo il motivo per cui ho creato con la cucina un rapporto vivo e perennemente rimpinguato. Per pensare di essere ancora in tempo di cucinare quel piatto mai cucinato.
Giulia Salis

Dedicato al Pane
Amo in te
il profumo inebriante e ricco di vita
amo in te
la crosta bruciata che mi fa salivare
amo in te la fragrante melodia
amo in te il morso denso
mi perdo nei tuoi alveoli come in una grotta
in cerca di segreti e meraviglie
e vorace bramosa gioconda
tradisco l’impazienza di un bambino
quando assaporo i tuoi aromi più profondi.
Amo in te anche l’enigmatica semplicità
con cui mi rendi schiava a ogni pasto.
(Liberamente ispirato da “Amo in te” di Nazim Hikmet)
Thea Papa

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