Nella notte tra domenica e lunedì un terremoto di magnitudo 7.8 ha colpito il Sud della Turchia e il Nord della Siria, causando più di duemila e seicento vittime (ma il conteggio è ancora parziale). L’epicentro è stato nei pressi della città turca di Gaziantep. Un terremoto di portata spaventosa che ha provocato gravissimi danni nei due Paesi. Dopo la prima grande scossa se n’è avvertita un’altra di magnitudo 7.5 e lo sciame sismico è poi proseguito facendo registrare picchi di “assestamento” sopra i sei gradi. Pur essendo una zona da sempre ad alto rischio, quello di domenica notte può essere definito «il più grande disastro che la Turchia abbia vissuto nell’ultimo secolo dopo il terremoto di Erzincan del 1939» come ha detto il presidente Recep Tayyip Erdoğan.
La risposta delle principali potenze mondiali non si è fatta attendere: dall’Ucraina agli Stati Uniti, passando per la Russia, tutti i governi si sono detti pronti a fornire assistenza alle popolazioni colpite. L’Unione europea ha già inviato squadre di soccorso in Turchia attraverso il meccanismo europeo per la protezione civile.
Dopo l’istanza di attivazione da parte di Ankara (legittimata a richiederlo perché fa parte dell’accordo che comprende sei Paesi extra Ue oltre ai Ventisette), Bruxelles ha mobilitato le squadre di ricerca e soccorso e ha messo a disposizione il sistema satellitare Copernicus per fornire servizi di mappatura di emergenza. Sul fronte siriano l’Unione metterà in campo programmi di assistenza umanitaria.
In Turchia al momento sembrano esserci state circa mille e seicento vittime oltre a migliaia di feriti. Sono inoltre crollati più di tremila edifici. La risposta dei servizi di emergenza è stata immediata, anche se i soccorsi hanno dovuto fare i conti con la coda di persone che cercava di lasciare le città e con l’ondata di gelo che si è abbattuta sulla regione.
Più difficile, vista la frammentazione politica del Paese, stabilire il numero di vittime in Siria. Al momento dovrebbero essere circa mille. L’epicentro del terremoto si è registrato a una cinquantina di chilometri dal confine siriano. Nel Nord della regione vivono circa un milione e settecento mila sfollati in campi e aree controllate da gruppi di opposizione che combattono il governo del presidente siriano Bashar al-Assad.
Il sisma ha colpito quindi una zona particolarmente delicata dal punto di vista geopolitico, teatro negli ultimi anni di una guerra civile che dal 2011 rende molto difficile, tra le altre cose, anche la gestione del sistema sanitario. I continui scontri a fuoco non hanno permesso di consolidare a livello strutturale la situazione nelle città e con edifici molto fragili i crolli sono stati immediati. In queste zone sarà probabilmente complicato avere una stima precisa delle vittime e dei feriti.
Una tragedia che necessiterà di risposte comuni per provare a limitare i danni ma che potrebbe anche rivelarsi una scintilla andando ad accentuare le tensioni sociali già forti, in una regione dove si trovano a dover coesistere le forze democratiche siriane a trazione curda, gli uomini di Assad e alcune cellule dell’Isis. Nell’affrontare l’emergenza sarà estremamente importante riuscire a garantire assistenza alla popolazione colpita mantenendo, al contempo, una già fragilissima stabilità.
È necessario evitare situazioni di caos che ridiano vigore alle cellule Daesh presenti. Soprattutto visto che nell’area ci sono campi di prigionia dove vengono detenuti donne e bambini legati allo Stato islamico, costretti a vivere, ormai da qualche anno, in condizioni complicatissime. Sono i figli e le mogli di ex membri del califfato arrivati in Siria per seguire la famiglia, nella maggior parte dei casi senza avere scelta. Molti di loro sono cittadini di Paesi occidentali. Alcuni sono europei.
Oltre a circa ventitré mila siriani, infatti, sono detenuti quasi quarantadue mila stranieri, tutti sospettati di avere legami con l’Isis. La maggior parte si trovano ad al-Hol e Roj in condizioni disastrose, stando a quanto riportato da Human rights watch. E a rischiare maggiormente sono soprattutto i bambini, che rappresentano circa il sessanta percento del totale. Alcuni di questi detenuti sono a tutti gli effetti cittadini dell’Unione europea in attesa di essere rimpatriati per essere sottoposti, eventualmente, a un processo nel proprio Paese.
Nel marzo 2021 il Parlamento europeo ha preso posizione a favore del rimpatrio dei bambini dai campi siriani, ma l’Europa non ha una politica comune sotto questo aspetto e, a eccezione della Germania, i Paesi dell’Ue non sembrano avere particolare fretta. Francia, Spagna e Paesi Bassi hanno iniziato le operazioni di rimpatrio con grande lentezza scatenando le proteste delle organizzazioni umanitarie. L’auspicio è che i governi europei possano accogliere le indicazioni del Parlamento, accelerando le operazioni di rimpatrio di centinaia di donne e bambini cittadini dell’Unione da una regione che da anni è una bomba a orologeria.