Un aforisma citato spesso da Enzo Biagi sosteneva che è difficile capire un Paese dove la stessa cosa al Nord è chiamata uccello e al Sud pesce. Ampliando il discorso dal (Bel)paese al mondo, e dirigendo lo sguardo, anziché alle zone basse, al cielo stellato sopra di noi, potremmo dire che è difficile intendersi per due Paesi che chiamano la stessa persona in un caso astronauta, nell’altro cosmonauta.
Ci avete mai fatto caso? Sui mass media si parla di astronauti quando ci si riferisce ai viaggiatori spaziali americani (e occidentali in genere), di cosmonauti quando si parla di quelli russi (e prima sovietici). In realtà non è un capriccio dei nostri speaker e giornalisti, che si limitano a un quasi impercettibile adattamento all’italiano dei vocaboli utilizzati rispettivamente negli Stati Uniti e in Russia, ossia astronaut e kosmonavt: entrambe formazioni dotte, dal greco, con il suffissoide -nauta, da náutes (navigante, marinaio), che nel primo caso è stato attaccato al prefissoide astro-, da ástron e astér (astro, stella), nell’altro al prefissoide cosmo-, da kósmos che non ha bisogno di traduzione.
Ma le scelte lessicali, anche quando sembrano e verosimilmente sono del tutto accidentali, non sono mai anche del tutto innocenti. Sia pure senza volerlo, svelano qualcosa del carattere di chi sceglie.
La prima attestazione del neologismo astronauta è in un romanzo di fantascienza dello scrittore inglese Percy Greg, che nel suo “Across the Zodiac: The Story of a Wrecked Record”, pubblicato nel 1880, immagina un volo su Marte a bordo di una navicella spaziale chiamata, per l’appunto, Astronaut. Nei primi decenni del Novecento la parola si diffonde in campo scientifico, mentre un altro scrittore di fantascienza, il belga (naturalizzato francese) J. H. Rosny, pseudonimo di Joseph-Henri Honoré Boex, nel romanzo “Les navigateurs de l’infini” (1925) conia l’aggettivo (poi sostantivo) astronautique, sul modello di aéronautique.
Anche se l’origine del vocabolo non è americana, gli Stati Uniti se ne impossessano e lo impongono nell’uso corrente occidentale a partire dal 1961 con l’avvio del programma spaziale che porterà nel 1969 allo sbarco sulla Luna. Certo, sono facilitati dal fatto di trovarselo già pronto in lingua inglese; ma come sfuggire alla suggestione di quel primo elemento del composto, astro-, che nella sua radice proto-indoeuropea ster (qualche etimologista la vorrebbe connessa all’accadico Ishtar, nome della dea e del pianeta che noi chiamiamo Venere) evoca anche foneticamente le stelle della bandiera statunitense?
Da ster a star (e al tedesco stern) il passo è brevissimo (un po’ meno breve era stato nel latino stella, a cui si era arrivati, con assimilazione della consonante R alla L, attraverso il più antico sterla, forma sincopata di sterula, che era un adattamento diminutivo del greco astér). E l’immagine di navigare tra le stelle – sparse a caso nella volta celeste, anche se fin dai tempi più antichi le raggruppiamo in fantasiose costellazioni – suggerisce un’idea di apertura illimitata, un po’ Far West, un po’ Nuova Frontiera «ricca di sconosciute occasioni, ma anche di pericoli, di incompiute speranze e di minacce», come la tratteggiò John Fitzgerald Kennedy. Qualche cosa di indissolubilmente congeniale allo spirito di intraprendenza americano, felicemente individualista e insofferente dei limiti troppi stringenti.
A fronte dell’astronauta americano, una trasposizione spaziale di Ulisse volto a ogni avventura, il cosmonauta sovietico (ora russo) ha un orizzonte in un certo senso più ambizioso ma insieme anche più bloccato: non questo o quell’astro, tra gli innumerevoli che si accendono quando cala il sole, ma l’universo tutto quanto come insieme concluso (i vocaboli non tengono conto della legge di Hubble né della teoria dei multiversi) che esaurisce tutte le possibilità dell’essere. E che ha una caratteristica dirimente, rivelata dal nome.
Nella lingua russa kosmos significa semplicemente spazio, ma, ancora una volta, dagli strati più sotterranei della parola si riverberano le tracce della sua accezione primigenia nel greco antico, dove kósmos è essenzialmente l’ordine, ciò che è disposto, regolato, governato ordinatamente, e in quanto tale si oppone al cháos. Anche in questo caso si può risalire a una radice indoeuropea, kens (la stessa a cui si collega il latino censeo, “stimo, valuto, registro”), la cui impronta rimanda a un’idea di operazione compiuta con meditata autorità, che in greco servì dapprima a qualificare la disposizione ben regolata dell’esercito in campo e solo in un secondo momento, nell’ambito della speculazione pitagorica, fu applicata agli astri: di qui, per ulteriori traslazioni, il senso di armonia tra diversi elementi che, ridiscendendo nel mondo sublunare, ha dato origine al significato di ornamento e abbellimento trasfuso nella kosmetiké téchne, l’arte decorativa, per giungere infine alla nostra cosmetica.
Ma è all’accezione primaria che occorre guardare: l’idea di un universo ordinato, perfettamente organizzato e programmabile ex ante, internamente unificato da un’indefettibile armonia, è la medesima trascritta in termini storico-politici nella (fallita) utopia comunista, le cui opzioni lessicali, da cosmonauta a cosmonautica a cosmodromo, sopravvivono in Russia alla rovinosa caduta del regime sovietico. Non solo in Russia, però: tutti si adeguano, con rispettoso automatismo, quando parlano delle imprese spaziali di quel Paese. Se non fosse italiana ma russa, AstroSamantha sarebbe per noi CosmoSamantha.