Pseudocereali150 giorni per completare il ciclo della quinoa andina

Le proprietà nutritive e la facilità di coltivazione di questa pianta erbacea l’hanno resa uno dei superfood più richiesti e di conseguenza più coltivati. Ma per evitare effetti nefasti, soprattutto per le popolazioni più povere, la produzione va pensata attentamente, come sta facendo un giovane imprenditore italiano

Foto di Miguel Marquina su Unsplash

Il ciclo vegetativo della quinoa è variabile: dai 120 giorni fino ai 210 in base alla varietà. In Italia, e nel resto d’Europa dove si prediligono le varietà a ciclo breve questo dura in media 150 giorni; nelle zone più meridionali d’Europa, che offrono la possibilità di coltivare varietà a ciclo più lungo, arriva anche a 180 giorni. Nelle Ande, luogo originario di questa pianta, il ciclo può durare circa 200 giorni. In sintesi abbiamo voluto raccontare come cambia la vita di una pianta a seconda dell’angolo di mondo in cui viene coltivata. E abbiamo scelto la quinoa, perché, più di altre, ha rappresentato negli anni il simbolo di parecchie controversie politiche ed etiche e offre spunti interessanti se vogliamo parlare di sostenibilità economica e alimentare.

Dando un’occhiata ai dati Fao, nel 2020 la produzione mondiale della quinoa è arrivata a circa 175mila tonnellate, con aumento considerevole, +120%, rispetto a dieci anni prima. Le superfici coltivate sono più che raddoppiate per estensione e, oggi, il trend è in continua crescita. Questo perché la quinoa, originaria prevalentemente in Sud America, con Perù e Bolivia che ne detengono il primato, ora è considerata una sorta di superfood.

Fino a qualche decennio fa in Italia e nel resto del mondo, in pochi la conoscevano e la quinoa rimaneva alla base dell’alimentazione delle popolazioni locali. Un cibo nutriente, conosciuto già ai tempi degli Inca, che consideravano questo seme sacro. La chisaya mama, così viene chiamata, la madre di tutti i cereali, anche se un cereale non è: si tratta infatti di una pianta erbacea che appartiene alla stessa famiglie di bietole e spinaci, ma i cui semi possono essere macinati fino ad ottenere farine panificabili.

Sulla quinoa si è discusso tanto e animatamente. In primis sul fatto che, in nome di un’alimentazione sana e contemporanea, si è sacrificata quella sostenibilità economica di cui in tanti ci riempiamo la bocca. Per far fronte, infatti, alla crescente richiesta in Occidente di quinoa, le popolazioni andine hanno dovuto cambiare il loro modo di nutrirsi: gli abitanti del luogo più poveri, che sono anche la fascia più numerosa, hanno sempre consumato grandi quantità di quinoa, ma negli anni hanno dovuto ridurre drasticamente il suo consumo, in quanto il prezzo di questa pianta è lievitato sensibilmente all’aumentare della domanda mondiale. Moltissime aree poi sono state convertite da terreni da pascolo a coltivazione, sempre per lo stesso motivo, andando ad inficiare sulla tradizione agropastorale dei paesi andini. Le conseguenze quindi sono state quelle legate al degrado del suolo, allo squilibrio tra le colture e produzione animale, un utilizzo di fertilizzanti chimici al posto di quelli organici e una distruzione della vegetazione selvatica, con una conseguente erosione del suolo.

In secondo luogo, c’è chi lamenta il fatto di voler a tutti i costi trapiantare una specie esotica in ambiente che non è il suo, cosa che in qualche modo va a mutare l’ecosistema e anche a portare sui campi patogeni nuovi, che potrebbero danneggiare le colture già esistenti.

Infine, c’è chi critica anche l’aspetto bio legato al marketing. I consumatori infatti sono portati ad acquistare quinoa biologica, che però, detto così significa ben poco. Ad oggi in Europa non esistono fitofarmaci registrati che possono essere utilizzati legalmente in questa coltura e questo ci fa capire come non possa esistere una distinzione tra bio e non bio.

In realtà negli anni la quinoa ha avuto un’espansione coltiva anche qui in Italia, dove comunque continuiamo ad importarne circa tre tonnellate all’anno. Pratiche che sono ancora agli inizi, ma che potrebbero dare una svolta più territoriale a quella che è una richiesta sempre più in aumento. Nella fattispecie, quelle che si producono da noi sono di varietà diverse da quelle andine, in quanto devono obbligatoriamente adattarsi a terreno e clima, ma potrebbero essere utili per dare risposte anche in merito ai cambiamenti climatici in atto. La quinoa infatti si adatta ad ambienti secchi e aridi, che ormai non di rado troviamo a causa della penuria di piogge. Inoltre per ora, nell’area mediterranea, sono stati rilevati pochi danni a causa di microorganismi che invece infettano altre culture e, a quanto pare, i cinghiali non sono interessanti alla quinoa: non se la mangiano, lasciandola intatta per la nostra nutrizione, cosa di non poco conto visto il fenomeno invasivo degli ultimi anni.

Nel Bel Paese si sperimenta con tenacia e dedizione. Alla fine degli anni Novanta è stata l’Università di Firenze a lavorare su questa coltivazione. Oggi un giovane imprenditore, Sebastiano Tundo, ha creato la sua personale filiera, in collaborazione con l’Università di Piacenza e un gruppo di agricoltori che l’hanno voluto seguire in questa sua impresa, vincitrice anche di alcuni premi per l’innovazione.
La questione quinoa dunque è affare complesso, che necessita di ordine, studio e pazienza. Per non ottenere risultati effimeri e non sostenibili sul lungo periodo.

Questo articolo fa parte del dossier su “Il valore del tempo”, il tema del Festival di Gastronomika 2023 che si terrà a Milano dal 21 al 22 Maggio.
Per informazioni puoi leggere qui.