3.600. Sono i secondi che servono per raccogliere un centinaio di chili di pomodori a mano. Un’ora per racchiudere il sole, se vogliamo mantenere un animo romantico e spiccatamente italiano. Un’ora faticosa e spesso condita, per rimanere in tema, di lati oscuri e poco edificanti, se andiamo a ragionare su quello che, ancora oggi, è il mercato del lavoro nel prodotto che, forse più di tutti, rappresenta il Bel Paese.
È di qualche mese fa, infatti, l’indagine condotta da una rivista tedesca che, ancora una volta, ha cercato di far luce sulle condizioni di lavoro di chi raccoglie i pomodori e l’ultimo studio del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, pubblicato qualche mese fa, ha voluto mettere l’accento sui tanti braccianti stranieri, inseriti in un disegno fatto di baraccopoli, senza corrente e senza acqua, con turni di lavoro che coprono una media di quattordici o sedici ore al giorno. Un mercato privo di sostenibilità umana, quindi, che ora sta cominciando a scontrarsi anche con tutta un’altra serie di problematiche sociali e ambientali.
Per farla breve, un piatto di spaghetti al pomodoro oggigiorno rappresenta più una sfida che un momento in un cui rifugiarsi nella rassicurazione di un gusto confortante.
Il mercato del pomodoro, infatti, è in crisi. I motivi sono pressoché scontati e si ripetono, più o meno identici, in buona parte del settore agricolo. Cambiamenti climatici, crisi economica, guerra. Il pomodoro, forse, soffre di più di altri. E questo vale un po’ dappertutto in Europa. Anche in Italia. Lo dimostra un’analisi elaborata dall’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (Ismea) su dati Istat: il pomodoro nostrano continua ad avere una produzione in crescita, ma le prospettive non sono totalmente rosee. «Il pomodoro da mensa rappresenta il cardine del reparto ortofrutta nei punti vendita della Gdo» ha spiegato Fabio Dal Bravo, responsabile dei Servizi per lo sviluppo rurale di Ismea – «ed è il principale prodotto, tra gli ortaggi, presenti nel paniere d’acquisto delle famiglie in Italia. Si attende però un peggioramento per quanto riguarda l’approvvigionamento, in quanto l’Italia rimane dipendente per una quota di circa il 10% di prodotto estero».
Qui da noi, infatti, consumiamo circa 18 chilogrammi di pomodori a testa all’anno. Ma le colture cominciano a risentire sia dei costi di produzione (nelle serre sono il doppio rispetto alle coltivazioni da campo) sia del clima che non segue più l’andamento delle stagioni. Nell’ultimo anno, poi, sono scese sia le esportazioni, con evidente diminuzione degli introiti, sia le superfici coltivate. E scendono anche gli investimenti, non più convenienti come un tempo in questo settore. Il risultato è che il mercato italiano comincia a risentire della crisi di altri paesi esportatori.
Spagna, Marocco e Turchia, infatti, stanno iniziando a chiudere i rubinetti. La colpa è da attribuirsi al cambiamento climatico, con un inverno, questo, senza piogge e un freddo improvviso nelle ultime settimane, che ha confuso parecchio la terra e le sue colture. Il governo marocchino, ad esempio, ha limitato l’export, sia verso gli altri paesi africani, sia verso il Nord Europa. La Turchia, invece, per aiutare il mercato interno ed evitare aumenti dei prezzi, aveva applicato delle misure restrittive valide sino al 14 aprile, che poi però ha revocato.
«L’Italia ancora oggi resiste grazie ai pomodori che vengono dalla Sicilia, ma in alcune città come Napoli, Padova e Bergamo la presenza dei ciliegini ai banchi dell’ortofrutta comincia a scarseggiare. Anche a Roma si segnala un calo della disponibilità del prodotto, ma comunque la crisi sembra più contenuta. In tutto il Paese si registra un aumento dei prezzi di tutte le qualità dei pomodori di almeno il 30% rispetto alle medie del periodo». Sono le parole di Massimo Pallottini, presidente di Italmercati, l’ente che raggruppa i mercati italiani all’ingrosso, e che racconta un quadro che porterà, irrimediabilmente, il costo dei pomodori a salire.
Certo, qui, complici il sole e la tradizione agricola, siamo lontani dalla situazione in cui si trovano altri territori, che in questo periodo sono proprio a corto del frutto rosso e stanno cercando di correre ai ripari con il razionamento. Nel Regno Unito alcune aziende della grande distribuzione hanno deciso di limitare a un massimo di tre confezioni alcuni prodotti, come peperoni, cetrioli e, appunto, pomodori. Medesimo scenario anche in Irlanda, dove la dipendenza dalle importazioni dall’estero è massiccia e i costi energetici non permettono coltivazioni in serra adeguate al bisogno.
Scaffali vuoti che hanno necessità di nuove politiche e di nuovi investimenti. Per un’economia che, in qualche modo, deve ricercare una nuova scala. E nel frattempo c’è chi scomoda persino Maria Antonietta con la sua celebre frase «Se non hanno più pane, che mangino brioche». Therese Coffey, segretario di Stato per l’ambiente, l’alimentazione e gli affari rurali del governo britannico, ha infatti proposto ai cittadini di mangiare rape di produzione autoctona al posto di verdure importate come i pomodori. Provocazione o encomio di un’autosufficienza economica? Chissà! Vero è che con le rape gli spaghetti al sugo non si possono fare e il pomodoro rimane un alimento da proteggere, nel valore della sua universalità.
Questo articolo fa parte del dossier su “Il valore del tempo”, il tema del Festival di Gastronomika 2023 che si terrà a Milano dal 21 al 22 Maggio.
Per informazioni puoi leggere qui.