Con la sua ultima decisione Tanya Plibersek si è probabilmente guadagnata un posto d’onore nella memoria politica – e non solo – del suo Paese. Agli inizi dello scorso febbraio, la ministra dell’ambiente dell’attuale governo australiano ha infatti impedito al magnate minerario Clive Palmer di realizzare una grande miniera di carbone a cielo aperto – che avrebbe fruttato almeno dieci milioni di tonnellate di carbone all’anno – a meno di una decina di chilometri dalla Grande barriera corallina.
«Ho deciso di non approvare il Central Queensland Coal Project perché gli impatti ambientali negativi sarebbero stati troppo grandi, con rischio di inquinamento elevatissimo e danni irreversibili alla Barriera Corallina e ai corsi d’acqua circostanti», ha detto Plibersek in un video postato sui suoi social network.
Oltre all’evidente beneficio per l’ecosistema, la presa di posizione della ministra ha una doppia risonanza per un motivo molto semplice: è la prima volta che un membro del governo nazionale usa i poteri conferitigli dall’Australia’s environmental protection and biodiversity conservation act, un trattato che delinea un quadro giuridico a cui attingere in merito alla protezione ambientale, per bloccare una miniera di carbone. Gli ambientalisti e gli aborigeni hanno buoni motivi per sperare che possa ricapitare ancora.
Certo, a patto che ogni caso sia trattato con la stessa cura e attenzione riservate a questo. Una richiesta che l’Environment council of central queensland (ECoCeQ), un’organizzazione ambientale comunitaria indipendente, avanza in realtà da tempo. Appoggiatasi all’Environmental justice Australia, un consorzio di avvocati specializzati in cause ambientali, la ECoCeQ ha infatti sollecitato Plibersek a considerare l’impatto sugli ecosistemi di tutte le decine di progetti sui combustibili fossili attualmente in attesa di approvazione, applicando quindi lo stesso metodo del caso Clive Palmer.
La ministra ha infatti dichiarato che la decisione di opporsi alla miniera è avvenuta dopo aver esaminato tutte le considerazioni giunte sia dai sostenitori del progetto che dai contrari (e raccolte in quasi diecimila lettere ed e-mail). Una conclusione grazie alla quale, secondo la presidente di ECoCeQ Christine Carlisle, «la Grande Barriera Corallina e le sue meraviglie viventi sono state risparmiate da oltre un miliardo di tonnellate di emissioni di gas serra che questa miniera avrebbe prodotto nel corso della sua vita».
Anche se sarà fondamentale capire come la ministra si comporterà con tutte le altre proposte impilate sulla sua scrivania, è comunque giusto che, ad oggi perlomeno, gli ambientalisti si prendano il tempo e lo spazio per festeggiare, perché «questa è una vittoria per la barriera corallina, per il turismo, per le comunità che dipendono dalla barriera corallina per il proprio sostentamento e per tutti coloro che amano l’oceano».
E, per questi ultimi e per tutti gli altri, di buona notizia ce n’è ancora una. La sera del 4 marzo, gli stati membri delle Nazioni unite hanno trovato un accordo internazionale per la protezione degli oceani – danneggiati da cambiamento climatico, traffico navale e pesca intensiva – dopo dieci anni di trattative, rallentate dall’opposizione dei Paesi meno ricchi.
L’obiettivo del piano è quello di rendere almeno il trenta per cento delle acque internazionali – cioè quelle che non sono di nessuno – aree protette entro il 2030. Il senso è piuttosto chiaro: tutelare quelle zone marine in cui, fondamentalmente, ogni Paese agisce a proprio piacimento. Una serie di politiche e iniziative dovrebbero infatti fissare dei limiti su diversi fronti, tra cui la pesca, le zone attraversabili e non via nave e la quantità di attività di esplorazione. Al momento – anche se sarà necessaria un’altra riunione per definire i dettagli del trattato – l’Unione europea si è detta pronta a investire quaranta milioni di euro affinché tutto fili liscio, e in tempi brevi.
La riuscita dell’accordo è più importante che mai. Primo, perché non possiamo continuare ad avere come riferimento internazionale un trattato sulla protezione degli oceani risalente al 1982 – fino ad ora il più recente accordo raggiunto dalla Convenzione delle Nazioni unite sul tema. Secondo, perché in ballo c’è il raggiungimento degli obiettivi stabiliti lo scorso dicembre alla Cop15 sulla biodiversità, per cui entro la stessa data (il 2030) dovrà considerarsi protetto il trenta per cento di tutte le aree terrestri e marine (grossomodo il doppio della condizione attuale).
Un’azione regolatrice che, insieme alle politiche nazionali, permetterebbe anche alle barriere coralline di avere maggiori possibilità di essere preservate – nonostante siano già patrimonio dell’umanità dal 1981 – con grossi vantaggi per tutto il Pianeta. Basti pensare che la sola Grande barriera corallina australiana – quella di cui scritto all’inizio – contiene all’interno dei suoi duemilaseicento chilometri circa quattrocento tipi di coralli duri, quattromila specie di molluschi, oltre millecinquecento di pesce, centotrentaquattro specie di squalo e razze e circa venti tipi di rettili, tra cui tartarughe di mare e molluschi giganti.
Secondo i biologi, il riscaldamento globale sta mettendo a dura prova la sua sopravvivenza. Fattori come l’aumento delle temperature oceaniche e l’acidificazione delle acque per via degli inquinanti, per esempio, sono responsabili dello sbiancamento dei coralli, un fenomeno che si verifica quando viene a mancare la simbiosi tra i polipi del corallo e alcune alghe unicellulari fotosintetizzanti, note come zooxanthellae. Non sempre questo conduce alla morte dei coralli – anche se in Australia la metà di loro è sparita negli ultimi venticinque anni – ma può sicuramente debilitarli. Motivo per cui il tempo che il mondo si è dato per ridurre inquinamento e CO2 potrebbe essere in realtà troppo lungo per la loro sopravvivenza.
L’Istituto oceanografico di Monaco dice che, dove possibile, bisogna cercare di ripristinare i coralli, trapiantandoli da un sito all’altro (ex-situ), o coltivandolo nel suo habitat naturale (in situ). Gli esperti dicono che basterebbe anche un piccolo frammento di corallo per riformare una nuova colonia. Ma, affinché sopravviva, sarebbe opportuno servirsi della cosiddetta “evoluzione assistita”, un metodo cioè che, al fine di impiantarli nuovamente, seleziona specie o ceppi di coralli più resistenti alle ondate di calore, prelevando al contempo uova e larve che gli si depositano sopra per ri-diffonderli sulla nuova futura barriera.
Idee che, in alcune parti del mondo, sono già messe in pratica. In Costa Rica, ad esempio, l’organizzazione Raising Coral sta utilizzando una tecnica di propagazione dei coralli, che funziona più o meno così: si prelevano piccoli campioni di coralli, si lasciano crescere in un vivaio subacqueo e, una volta ‘pronti’ (dopo sei-dieci mesi), le colonie sono pronte per essere ripiantate sulla barriera corallina danneggiata. Lo stesso processo adottato dalla Reef restoration foundation (Rrf), un’organizzazione senza scopo di lucro che con i suoi vivai offshore al largo della Fitzroy Island è riuscita nel corso degli anni a far riprodurre per la prima volta i coralli Acropora, considerati fra i principali in tutta la Barriera.
I ricercatori dell’università di Hong Kong, invece, hanno optato per una soluzione più tecnologica. Nel parco marino di Hoi Ha Wan, in gran parte danneggiato dall’inquinamento e dal violento tifone del 2018, gli esperti hanno installato “piastrelle” in terracotta stampate in 3D, progettate per aiutare i coralli a crescere, dandogli un nuovo fondo su cui “mettere radici”. La forma della base aiuta i coralli a crescere verso l’alto, attirando a sé vita marina. Un metodo, a detta dei ricercatori, che può aiutarli a ricrescere anche nelle aree in cui è completamente scomparso.
Perché agli esperti di tutto il mondo interessa così tanto la salute dei coralli? Secondo il Global fund for coral reefs (rapporto 2021), la barriera corallina, oltre che a garantire la conservazione della biodiversità, fornisce sostentamento a circa un miliardo di persone grazie, principalmente, al turismo e alla pesca. Tra l’altro ha l’enorme merito di riuscire a difendere le coste dalle tempeste come non è in grado di fare alcuna struttura costruita dall’uomo.
Poi c’entra pure la nostra salute. Gli esseri umani e i coralli condividono infatti un patrimonio genetico comune. Quello dell’Acropora ha, per esempio, il quarantotto per cento di corrispondenza con quello di un individuo. Garantire la sopravvivenza della barriera corallina, e quindi darci la possibilità di studiarla, apre molte prospettive per la ricerca medica. Perciò ben vengano i ministri coraggiosi e i trattati internazionali sugli oceani: d’altronde a rischiare di annegare in mezzo a tutto questo mare ci siamo pure noi.