Negli anni, attorno e sopra al Monte Conero, un rilievo dell’Appennino umbro-marchigiano che si solleva per poco meno di seicento metri sull’Adriatico, ci avranno camminato davvero in tanti. Certo, non tutti con la consapevolezza di stare calpestando un geosito.
L’Istituto governativo per la protezione e la ricerca ambientale (l’Ispra) spiega che secondo la definizione comunemente accettata «un geosito può essere definito come località area o territorio in cui è possibile individuare un interesse geologico o geomorfologico per la conservazione». Significa, in altre parole, che è da considerarsi tale ogni territorio che per qualche sua peculiarità conserva e tramanda la storia e l’evoluzione di quel luogo. Il geosito del Monte Conero racconta molto delle sue zone, per diversi motivi.
L’osservazione delle sue rocce sedimentarie, ad esempio, e per lo più stratificate, ha permesso di studiare il passaggio da un’era geologica all’altra. Allo stesso scopo sono servite le incisioni rupestri sulle sue pareti. È piuttosto intuitivo capire che si tratta di ambienti che, quindi, vanno tutelati per il loro valore, che sia paesaggistico, archeologico o “vitale”: preservarli contribuisce infatti a combattere la perdita di biodiversità e mantiene gli ecosistemi sani. Certo, una “protezione” ottenibile a patto che questi “scrigni” preziosi vengano riconosciuti come tali – cioè come geositi.
Ci stiamo provando. A partire dal 2002 l’Ispra promuove l’Inventario nazionale dei geositi, un progetto che si propone di realizzare una raccolta di tutti i geositi sparsi sul nostro territorio. Uno strumento pensato «per la conoscenza geologica dell’Italia, per la pianificazione territoriale, per la tutela ambientale e per permettere alla storia della Terra di continuare a tramandarsi». E che si pone sulla scia di diversi tentativi accennati negli anni a livello mondiale.
Risale al 1991, ad esempio, la nascita della carta internazionale dei diritti della memoria della Terra, un documento presentato dall’Unesco durante un convegno sul tema svoltosi a Digne (Francia) e che tra le altre cose stabilisce le modalità con cui schedare e censire il patrimonio geologico, esortando tutte le autorità nazionali e internazionali competenti a muoversi in questa direzione.
Un obiettivo perseguito qualche anno dopo (1996), su iniziativa dell’Iugs (International union of geological sciences) anche dal programma di ricerca “GEOSITES”, tuttora in fase di attuazione e patrocinato anche dall’Unesco, che ha lo scopo di realizzare su scala mondiale un inventario online dei siti-chiave per la geologia e la storia della Terra, da compilare e aggiornare sistematicamente.
Tornando a noi, il catalogo italiano, ad oggi, comprende fra i duemila e i tremila geositi, un numero che si modifica e si aggiorna di continuo. C’è però un problema, che sorge quando la buona intenzione si scontra con la burocrazia: per l’inventariazione non esiste ancora una normativa unica a livello nazionale, e per questo ogni singola regione usa criteri propri, differenti.
È vero, non è sempre facile capire quando si è davanti ad un geosito – e quindi segnalarlo – e quando no. Ne esistono di molte tipologie, e ogni categoria ha una peculiarità che la identifica: abbondanza di fossili, terreno con forme particolari, luoghi originati dal vulcanismo e così via. Ma l’errore che spesso si compie è quello di sottovalutare il valore del patrimonio geologico, da una parte e dall’altra: cioè dalla parte delle istituzioni, la cui divulgazione su certi argomenti è poca e confusa, e dalla parte dei cittadini, che abitano quei luoghi ma non se ne interessano.
Openpolis, una fondazione nata per informare i cittadini su argomenti di interesse pubblico, scrive che su 2.160 geositi registrati in Italia nel 2021, il Friuli-Venezia Giulia è la regione che ne ospita di più (286), seguita da Sardegna (236) ed Emilia-Romagna (215). Ma, oltre al Friuli-Venezia Giulia, al momento sono solo quattro le entità territoriali dotate di normative apposite.
Tra queste c’è la sopra citata Emilia-Romagna (oltre a Puglia e Liguria), che tra l’altro, in ottica di conservazione, ha una legislazione piuttosto efficace. La Regione mostra che l’estensione areale complessiva dei siti censiti è di circa cinquantatremila ettari, corrispondente al 2,5 per cento del territorio regionale. Anche se, a dirla tutta, molti di questi sono stati dichiarati geositi solo perché già situati in aree protette. Stesso discorso valido anche per Puglia e Campania, dove più dell’ottanta per cento dei siti di interesse geologico registrati nel 2021 si trova in aree protette.
Per Ispra, citata da Openpolis, «questa notevole disomogeneità non è dovuta a una maggiore o minore ricchezza del patrimonio geologico nelle diverse aree del nostro Paese. Quanto più al diverso stato di avanzamento dei progetti di inventariazione dei geositi da parte delle regioni». Una pratica che necessita di una maggiore armonizzazione e soprattutto di risorse finanziarie, spesso insufficienti anche solo per assumere personale specializzato e dedicato. E, risparmiare su settori come questo, significa sostanzialmente condannarli a morte.
Un altro errore che spesso si compie è infatti quello di credere nell’autoconservazione dell’ambiente. Una caratteristica che sì, appartiene alla natura, ma su cui non possiamo più fare totale affidamento per via della nostra stessa presenza. Che, se da una parte è causa del problema, dall’altra deve egualmente «assicurare in un quadro organico la promozione, la conservazione e il recupero delle condizioni ambientali conformi agli interessi fondamentali della collettività ed alla qualità della vita, nonché la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale e la difesa delle risorse naturali dall’inquinamento».
Di quest’ultimo aspetto, in particolare, gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: dalla siccità alle alte temperature, fino ad arrivare agli eventi meteorologici sempre più estremi. Tra cui anche le precipitazioni, decisamente più violente rispetto a qualche decennio fa e che cadono sulle nostre città di certo non senza conseguenze. La più evidente è il loro «enorme impatto sulla morfologia del territorio, sui corsi d’acqua principali e minori, innescando colate detritiche che danneggiano infrastrutture pubbliche e private e il territorio», come ha scritto la Regione Emilia-Romagna in un suo comunicato.
Motivo per cui si discute ormai da tempo dell’urgenza di un impegno politico – ed economico – serio e strutturato per contrastare l’avanzamento del cambiamento climatico. Un incarico che sì, ha bisogno di organizzazione nazionale alle spalle, ma che può partire già nel piccolo, dai comuni. «Per questo tipo di attività, sono previste delle uscite nei bilanci delle amministrazioni volte alla protezione dell’ecosistema naturale, tra cui quello legato alla tutela, alla valorizzazione e al recupero ambientale», spiega Openpolis.
Ma alla fine, le spese per le attività di «protezione ambientale, compresi i sussidi dedicati agli enti che si occupano di questo ambito e il monitoraggio dei programmi, delle politiche sul territorio e degli interventi legati allo sviluppo sostenibile» non sono molte. I comuni italiani spendono in media 39,29 euro pro capite: una cifra piuttosto bassa se si pensa che la metà degli italiani (sondaggio YouGov 2021) vorrebbe invece che il denaro pubblico destinato a contrastare il cambiamento climatico fosse molto di più, anche a costo di sacrificare altri settori.