Maraude SolidaireSulla strada dei migranti che attraversano il confine tra Italia e Francia

Da qualche anno non esistono più collegamenti statali tra Claviere (l’ultimo comune italiano) e Montgenèvre (Monginevro). E il percorso dei migranti che cercano di passare la frontiera con il Paese transalpino diventa sempre più pericoloso

Credits: Chiara Comai

A Monginevro, sul confine tra Italia e Francia, a marzo c’è ancora neve. È pieno di turisti che vanno a sciare perché i versanti della Val di Susa sono bianchi e freddi, nonostante il caldo di quest’inverno. «Di notte è frequente che ci siano -15 gradi», racconta Michele Belmondo, operatore della Croce Rossa di Bussoleno. Insieme agli altri volontari, Belmondo soccorre ogni giorno i migranti che proprio tra quei versanti rischiano la vita. «Ci sono due modi per attraversare il confine francese: da Monginevro o dal passo del Frejus», spiega. «La traversata in montagna (la prima, ndr) è più pericolosa ma offre maggiori possibilità di successo».

Solo nei primi tre mesi del 2023 la Croce Rossa di Bussoleno ha assistito quattrocentosessantuno persone. «Questi dati non sono completi, perché noi registriamo solo i migranti a cui portiamo soccorso. Gli altri sono passaggi invisibili, è impossibile fare una stima precisa di quanti siano». precisa Belmondo.

Il confine italo francese
Da qualche anno non esistono più collegamenti statali tra Claviere (l’ultimo comune italiano) e Monginevro. Si può attraversare il confine solo a piedi o con un mezzo di trasporto autonomo, perché è più agile controllare le auto piuttosto che fermare ogni navetta alla frontiera. I migranti quindi risalgono la valle in autobus e scendono a Claviere, per poi proseguire tra i boschi. Da Claviere a Monginevro ci sono circa tre chilometri «ma sei davvero arrivato quando sei a Briançon», sottolinea Belmondo. Una decina di chilometri in tutto. «Ci sono i sentieri escursionistici – aggiunge – però le persone esuli spesso si spargono tra i boschi per scappare dalla polizia».

La pericolosità della traversata dipende dalla presenza di squadre della polizia al confine. «Se c’è la Paf, le persone cercano di passare in luoghi più distanti e nascosti», racconta Yves, volontario a Briançon. «Ci sono terreni accidentati o zone di valanga, dove si corrono molti rischi. In primavera qualcuno prova ad attraversare fiumi in piena».

Per arrivare in Francia dal Frejus bisogna prendere un pullman o un treno. «Nove persone su dieci vengono respinte – riporta Belmondo – perché la polizia francese controlla le vetture da cima a fondo. A differenza di Monginevro, al Frejus le ispezioni avvengono direttamente sul territorio italiano». Da Claviere «le persone sono stanche e provate, se ti infortuni rischi l’ipotermia – dice Belmondo – però le possibilità di successo sono piuttosto alte. Lo dimostrano i numeri degli arrivi in Francia».

La Grande Maraude Solidaire
In centinaia tra francesi e italiani hanno manifestato a Monginevro sabato scorso (18 marzo). Una marcia solidale per mostrare vicinanza a chi tenta di passare il confine italo francese in cerca di un futuro migliore. «Stop deportation: no border no nations», il grido dei manifestanti di fronte al presidio di polizia a Monginevro, dove vengono portati i migranti intercettati tra i sentieri della montagna, prima di essere rimandati in Italia. Il raduno è iniziato alle 17:30 presso la stazione di sci di Monginevro. Da lì è partito un corteo fino alla postazione della polizia alla frontiera, dove interventi e cori sono proseguiti per più di un’ora. «Documenti per tutti, o tutti senza documenti» il grido che si levava all’unisono tra le montagne. La Paf (la polizia di frontiera francese) era in ascolto.

«Lo spirito dell’iniziativa è quello di portare l’attenzione sul pericolo che queste persone corrono nell’attraversare la frontiera», racconta Silvia, operatrice del Rifugio Fraternità Massi di Oulx, che ospita chi arriva dalla rotta balcanica e si prepara all’ultima fatica: arrivare in Francia. Dopo il corteo, una cena conviviale. «Quest’anno è stata preparata da tre gruppi italiani che cucinano tutte le settimane per il rifugio Massi», spiega Silvia. Poi il cammino, solo quando ormai la luce era calata da tempo e le temperature si aggiravano intorno ai -1 gradi. I manifestanti sono partiti per i sentieri che attraversano la frontiera, gli stessi sentieri che le squadre di salvataggio percorrono per recuperare i dispersi. Il termine maraud, infatti, si riferisce proprio alle operazioni di volontari che perlustrano la montagna dal confine francese. «Ci mettiamo nei panni di chi ogni notte si mette in pericolo per portare in salvo i migranti – spiega Silvia – È un supporto fondamentale. La montagna è un luogo ostile, soprattutto d’inverno». La Grand Maraud Solidaire viene organizzata una volta all’anno da cinque anni.

I soccorritori sono per lo più francesi. È una questione giuridica: «Se i volontari fossero italiani rischierebbero il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina», spiega Piero Gorza, antropologo di Onborders. «È in corso una criminalizzazione della solidarietà. Ci sono stati trentadue tentativi di procedimento giudiziario nei confronti di chi ha prestato primo soccorso ai migranti in viaggio». È un intervento necessario, però. Numerosi volontari, italiani e francesi, denunciano le morti sul confine. «Ricordo Blessing, annegato nel fiume Durance – confida Yves –. Per lui è in corso un’indagine giudiziaria».

I respingimenti
Non è possibile fare una stima di quanti allontanamenti avvengano ogni giorno dal lato francese. Silvia fa un calcolo sulla base di quante persone vengono riportate in struttura perché respinte dalla polizia. «Negli ultimi tempi le espulsioni sono alte, ma dipende molto dai giorni e dalle condizioni atmosferiche – racconta – e se le pattuglie di turno hanno voglia di muoversi dal posto di polizia e spostarsi nei boschi a cercare». C’è quindi una variabile «umana», difficile da prevedere. «A volte usano solo il binocolo, altre attivano una telecamera che monitora il calore dei corpi vicini», aggiunge.

Quando la Paf ferma qualcuno viene subito avvisata la polizia di frontiera italiana, che registra le persone. A quel punto entra in gioco la Croce Rossa di Bussoleno, che recupera i respinti e nella maggior parte dei casi li porta al Rifugio Massi di Oulx. «Noi non obblighiamo nessuno – precisa Franco, volontario della Croce Rossa di Bussoleno – le persone sono libere di ripartire anche subito. Noi però cerchiamo di convincerli almeno di trascorrere una notte al Massi, per riposarsi e farsi curare». Nei casi più gravi, invece, gli esuli vengono direttamente soccorsi nella struttura di Bussoleno.

Tra Monginevro e il polo logistico di Bussoleno ci sono cinquantuno chilometri, tre quarti d’ora di strada. Per essere più agili, gli operatori della Croce Rossa stazionano l’alta valle dalle 19 alle 24 ogni giorno. Quest’operazione è necessaria a causa dell’alta frequenza degli allontanamenti. «Il problema è che non c’è un orario preciso, la polizia ci chiama in tutti i momenti della giornata – dice Franco – stamattina siamo andati a recuperarne cinque».

La struttura di Bussoleno è stata aperta nel 2016 da Michele Belmondo. «Fino al 2018 la polizia di frontiera italiana non c’era. Con il governo Conte I è stata ripristinata, proprio per gestire le espulsioni da parte della Paf francese. È diventata operativa dal 2020» racconta Belmondo.

Nel 2015 la Francia ha sospeso il trattato di Schengen dopo l’attentato al Bataclan. Stando a quanto riporta Anafè, un’associazione francese di assistenza al confine, ogni sei mesi Parigi rinnova i controlli alle frontiere. «In certi periodi c’era anche l’esercito – dice Silvia – a volte usano quad e motoslitte».

I rapporti con le associazioni locali, però, sono buoni. Sul fronte italiano «c’è collaborazione – spiega un operatore del Rifugio Massi – anche perché alla polizia italiana non dispiace che le persone riescano a espatriare». E aggiunge: «Da quanto vediamo noi, le persone di solito al terzo tentativo riescono a passare. Diciamo che se la Paf volesse veramente fermare tutti, lo farebbe».

Sul versante francese la tensione è maggiore. «Due settimane fa la Paf ha arrestato due persone di fronte al rifugio» riporta Marta, volontaria al Refuges Solidaires di Briançon. «Sono cinque anni che va avanti così – commenta Jean Gaboriau, gestore della struttura – in città gli arresti sono pochi. Però ogni volta che gli esuli devono andare in stazione, o a fare la spesa, andiamo sempre con loro. Quando c’è una persona bianca è meglio».

Yves, volontario, stima che la presenza delle forze dell’ordine al confine costi a Parigi circa 40mila euro al giorno. E in Italia? Pare che finora nessuno l’abbia calcolato.

I rifugi a ridosso del confine
Nella solidarietà, i due versanti della montagna sono quasi speculari. Sul lato italiano, chi arriva fa tappa a Oulx al rifugio Massi, dove riceve assistenza anche medica e può dormire per una notte. In caso di respingimenti, si torna in struttura. Chi riesce a passare la frontiera viene poi accolto nella struttura di Briançon, dove può trovare anche supporto psicologico. Di solito le persone si fermano per un massimo di cinque giorni, per poi ripartire. «Vengono da così lontano che quando arrivano in Francia hanno il volto quasi rilassato» racconta Jean Gaboriau. «Ma c’è il rischio di dare di matto, dopo tutti gli orrori subiti durante il cammino».

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