Sorriso timido e sguardo buono, Diouf Alaji sembra molte cose ma tra queste non c’è sicuramente un galeotto o un trafficante di essere umani. Però per lo Stato italiano è entrambi: condannato a otto anni di reclusione per essere lo scafista di un’imbarcazione partita dalla Libia con circa centotrenta persone a bordo, otto delle quali morte per asfissia durante il viaggio.
Nella storia di Diouf Alaji c’è il paradosso dell’ordinamento giuridico italiano e del sistema messo in atto in questi anni per contrastare il traffico di esseri umani. Sei uno «scafista» se porti l’imbarcazione anche solo per un breve tratto, oppure se aiuti chi lo sta facendo e, nel suo caso, anche se un uomo che viaggiava in un barcone vicino al tuo ti taccia di essere lo scafista, anche se l’accusa non viene confermata dalle persone che viaggiano con te.
Per raccontare meglio questa storia però dobbiamo fare un passo indietro, al 2005, quando in un piccolo villaggio del Senegal muore un uomo che lascia sua moglie e i suoi figli. La donna fisicamente non è in grado di lavorare e i figli interrompono il percorso scolastico e vanno a lavorare per sostenersi e sostenere tutta la famiglia. Cose che a noi oggi sembrano lontane e difficili da immaginare nel “nostro mondo” ma che accadono ancora in Senegal come in molti altri Paesi.
Diouf è uno dei figli rimasti orfani di padre e inizia a lavorare come piastrellista, ma i soldi sono pochi e la fame è tanta, così nel 2015 decide che l’Europa è la sua destinazione, perché vuole continuare a fare il piastrellista ma vuole anche vivere e far vivere la sua famiglia dignitosamente. In Senegal pensare di andare via per lavorare e inviare soldi è qualcosa di comune, quasi il dieci per cento del Pil nazionale si basa proprio sulle rimesse di chi si trova in altri Paesi, principalmente nel vecchio continente.
Mali, Burkina Faso e Niger, le rotte migratorie non sono mai lineari ma disegnano linee impreviste dettate della permeabilità delle frontiere e dai rapporti dei trafficanti con una polizia locale invece che con un’altra. Un chilometro alla volta, una tangente dopo l’altra da pagare a chi controlla quelle zone, Diouf attraversa il deserto e arriva in Libia.
«Molti di quelli che viaggiavano con me sono rimasti indietro perché non avevano i soldi, io invece ho portato tutti i risparmi della mia famiglia e abbiamo chiesto anche un aiuto ai nostri parenti», racconta mentre passeggiamo per i giardini del quartiere Esquilino di Roma, dove abita in una casa messa a disposizione dell’associazione Baobab Experience.
Dei centri di detenzione in Libia da anni ormai sappiamo che sono luoghi infernali dove la vita vale poco o nulla, dove le donne sono vittime di abusi e che gli uomini sono torturati ai fini di pagare un riscatto. Diouf spende gli ultimi duemila euro del suo tesoretto per salire su di un barcone alla volta dell’Italia.
«Eravamo in centotrenta nel barcone, talmente tanti e stretti che non potevamo distendere neanche le gambe», mi racconta mentre gli spunta un sorriso amaro e aggiunge: «Io del mare ho sempre avuto paura. Era vicino a casa mia ma non ci andavo mai».
Di quella traversata Diouf ricorda il mare mosso, la paura, le tante ore immobili e soprattutto le sette donne e l’uomo che sono morti a bordo per asfissia, prima che arrivasse la Guardia Costiera italiana a soccorrerli.
Diouf arriva al porto di Taranto insieme ad altre centinaia di persone, soccorse da diversi barconi e trasbordati su di una nave civile. Al momento dello sbarco vengono divisi in base alla barca di provenienza e la Guardia di Finanza inizia a interrogare i migranti per capire chi fossero gli scafisti. Diouf viene indicato come tale da un uomo che aveva perso la sorella durante la navigazione, però l’uomo che lo accusa non si trovava sulla sua stessa barca, dettaglio non irrilevante visto anche l’alto numero di persone a bordo.
Nessuno di chi viaggiava con Diouf conferma questa tesi, ma lui tutto questo lo saprà tempo dopo, perché non solo non parla italiano ma nemmeno inglese, francese e arabo; parla solo la lingua mandinga e quando viene portato negli uffici della Guardia di Finanza e poi tradotto in carcere dalla Polizia, lui continuerà a non sapere cosa stia accadendo.
«In carcere quando mi hanno interrogato, io parlavo solo mandinga e non comprendevo le domande che mi venivano rivolte». Dalla sentenza, invece, risulta che lui abbia detto di parlare solo wolof e che le domande dell’interrogatorio gli siano state rivolte in inglese, francese ed arabo. «Può essere un interrogatorio valido?», mi chiede retoricamente e aggiunge: «Se capitasse oggi potrei difendermi perché capisco e parlo italiano».
La sentenza di primo grado è di dodici anni di reclusione con il rito abbreviato, evidentemente l’avvocato d’ufficio non ha creduto alla sua innocenza o non ha voluto investirci tempo. In Corte d’Appello viene ridotta a otto anni ma la sentenza sembra più una beffa che una conquista: «Gli imputati non sono gli organizzatori del viaggio, questi ultimi rimasti al sicuro sulle coste libiche – recita la sentenza e prosegue – bensì altri disgraziati che hanno accettato tale compito per fuggire anch’essi dalla condizione in cui versavano in patria. Dunque scafisti improvvisati se è vero che essi venivano allenati sulla spiaggia alla conduzione dei gommoni poco prima della partenza».
Disgraziati, nonostante Diouf Alaji rifiuti anche questa ricostruzione: «Io non l’ho mai portata una barca, io sono un piastrellista e questo so fare», ribadisce spesso interrompendo il suo racconto.
Oggi è un uomo libero e da poche settimane lavora come piastrellista, ha scontato quasi sette anni di carcere che lo hanno provato molto. «Ho tentato più volte il suicidio, soprattutto quando è morta mia mamma e io ero ancora in prigione. È stata molta dura e ho pensato di usare una corda per impiccarmi». Il racconto si ferma, due sussulti della testa tradiscono un singhiozzo nervoso, seguito dalle lacrime. «Mio fratello mi ha detto che nostra mamma è morta con la mia foto sotto al cuscino, per me è ancora un dolore grandissimo», chiosa mentre reprime il pianto.
Il Testo unico sulle migrazioni all’articolo 12 prevede la condanna per «chiunque promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato», basta anche solo passare una tanica di benzina per essere tecnicamente condannati, nonostante anche la Corte d’Appello di Lecce nella sentenza escluda il collegamento tra i migranti condannati e i trafficanti, quelli che sulle barche non ci mettono piede e non penserebbero mai di “sacrificare” un proprio uomo, sapendo che finirebbe in carcere.
Dopo la tragedia di Cutro si è tornato a parlare di scafisti e il decreto governativo ha inasprito le pene per quest’ultimi sapendo benissimo che la rotta turco-calabra ha bisogno di persone esperte nella navigazione perché le imbarcazioni di solito sono a vela e comunque sono grandi e difficili da comandare, ma sanno bene che è anche una rotta marginale: a fronte dei ventimila arrivi in Italia dal 1 gennaio a oggi, solo 689 sono avvenuti su quella rotta mentre dodicimila circa dalla Tunisia e poco più di settemila dalla Libia, in questi ultimi due casi le piccole imbarcazioni utilizzate non sono mai guidate dai trafficanti o da uomini legati a loro.
«Il caso di Diouf Alaji ci mostra come in Italia si possa verificare una vera e propria sospensione dello stato di diritto ma soprattutto che fin quando non ci sarà la modifica dell’articolo 12 del Testo unico sulle migrazioni, che definisce trafficante qualunque migrante sfiori per un attimo il timone, ci saranno casi come questo», commenta Alice Basiglini portavoce dell’associazione Baobab Experience, che sta sostenendo Diouf insieme all’avvocato Francesco Romeo.
«Stiamo chiedendo la revisione del processo perché vogliamo dimostrare che lui non è uno scafista, che non ha portato quell’imbarcazione e che non gli è stato garantito il diritto di difesa che la nostra Costituzione definisce inviolabile, Diouf non ha compreso nemmeno di quale reato è stato accusato, per quale delitto è stato processato e poi condannato», conclude l’avvocato.