C’è una particolare zona di intersezione, ed è quella in cui scienza e creatività si intersecano. Ecco, in quel preciso cluster si possono trovare punti di vista alternativi e magari rivoluzionari che possono ribaltare quello che abbiamo pensato fino ad oggi rispetto a un certo tema. Ad esempio: cosa pensiamo delle piante? Magari che sono belle, magari che ci servono per mangiare o per produrre spezie o erbe officinali, ma abbiamo mai pensato a loro come esseri senzienti? Probabilmente no.
Questo succede perché la nostra è una visione strettamente antropocentrica: Stella Saladino nel libro “Pensa come una pianta. Modelli cognitivi del mondo vegetale per trovare soluzioni e idee innovative” (Flaco Edizioni) offre spunti di riflessione e delle metodologie che si possono mutuare dal mondo vegetale e applicare in quello umano, dai processi creativi alle procedure organizzative.
Tutto ha avuto inizio quando, nel 2018, Stella si è trovata a soffrire di una malattia che l’ha bloccata nella locomozione e, non potendo muoversi, ha provato a mettersi letteralmente nei panni di una pianta. Essendo appassionata di filosofia e di scienza ha iniziato a porsi delle domande e a confrontare la sua immobilità con quella dei vegetali.
«Come prima cosa ho scoperto che la mia immobilità come essere umano è molto diversa da quella che sperimentano le piante: osservando e confrontando il modello cognitivo con il nostro mi sono resa conto che è totalmente divergente. L’essere umano ha basato tutta la propria evoluzione sulla locomozione, quindi io, in maniera del tutto consequenziale, vivevo l’immobilità come un limite e una regressione. Per le piante invece il percorso evolutivo è stato opposto: erano mobili e hanno scelto di radicarsi: originariamente, venendo dall’acqua, erano alghe. Il fatto di diventare organismi sessili è stata una precisa scelta evolutiva. Questa riflessione per me è stata un’epifania», racconta a Linkiesta Stella Saladino.
Chi pratica yoga lo sa: sentirsi ben radicati a terra è una parte fondamentale del percorso di mindfulness, ma non è così scontato, poi, adottare quel tipo di centratura nella vita di tutti i giorni. La nostra mente di occidentali è troppo modellata dall’antropocentrismo per poter pensare che le piante abbiano qualcosa da insegnarci. Pensate a quante volte vi sarà capitato di sentir dare, o di dare a vostra volta, a qualcuno del vegetale: difficilmente sarà stato per rivolgergli o rivolgerle un complimento.
Questo accade perché siamo ancora troppo abituati a considerare le piante come delle specie aliene. «La ragione principale è che non le vediamo muoversi: è questa la chiave di volta di tutto il problema. Tramite delle ricerche che ho fatto ho scoperto l’esistenza di un vero e proprio fenomeno che si chiama “plant blindness” e che indica l’incapacità dell’uomo di vedere le piante nell’ambiente circostante», spiega l’esperta di neuroscienze e mindfulness,
In poche parole, «quello che succede è che noi non notiamo subito l’elemento vegetale: vari esperimenti hanno dimostrato come, quando vengono mostrate delle immagini che rappresentino sia piante che altri tipi di organismi, che possono essere anche insetti molto piccoli, l’uomo nota questi ultimi in maniera prioritaria. Le piante sono percepite come un contorno, come uno sfondo, è quello che capita quando, di fronte a un’immagine con soli alberi o con sola erba, diciamo che non c’è nulla. Tutto questo chiaramente determina anche un avere poca sensibilità nei confronti delle piante perché, se noi le consideriamo come uno sfondo, dobbiamo superare un notevole deficit cognitivo per prenderci cura di loro».
Ma quindi come si fa a imparare a pensare come una pianta? Per prima cosa, precisa Stella Saladino, «bisogna imparare ad essere umili, nel senso più proprio del termine. Umile viene dal latino humus, che significa terreno: quello che serve è a tutti gli effetti una retrocessione rispetto ai nostri punti di forza evolutivi. Io sono stata forzata a farlo, ma è stato grazie a questa modalità di osservazione che mi sono spogliata del mio antropocentrismo e ho provato a consultare delle intelligenze altre e mi sono resa conto che lì c’era un bacino enorme di risorse, che però nessuno guarda. Tutto quello che accade in natura è a nostra disposizione, ma per essere in grado di consultarlo bisogna mettere in atto tutta una serie di sensibilità, primariamente anche culturali, che cerchino di superare un deficit cognitivo e culturale che abbiamo nei confronti dell’ambiente naturale».
Noi non consideriamo le piante ma, quando lo facciamo, non le percepiamo come organismi intelligenti: le equipariamo ai minerali o alle rocce. «Il nostro stesso linguaggio è svilente nei confronti del “sistema piante”, che invece è estremamente intelligente. Ma, oltre a questo, da loro dipende la nostra intera esistenza: se non esistessero loro non sarebbe possibile la vita sulla terra, il modello gerarchico nel quale ci siamo messi al vertice dovrebbe essere invertito. C’è un capitolo del libro che si intitola “Siamo tutti figli di Aristotele” in cui ripercorro quanto sia radicata nella nostra cultura occidentale e nella nostra filosofia la concezione gerarchico-piramidale secondo cui l’uomo sta in cima, lo scienziato nella fattispecie, mentre le piante sono al penultimo gradino sopra ai minerali e alle rocce».
In cosa, ad esempio, le piante sono più funzionali di noi? «Una delle caratteristiche principali del mondo vegetale è la modularità: le piante non sono fatte come noi, che abbiamo un cervello, che io chiamo capo, che è sia sinonimo di testa, ma anche di quello che dà gli ordini a tutto il resto dei nostri organi. Le piante è come se avessero tantissimi cervelli, replicati su tutta la loro estensione: questo fa sì che pensino in maniera diversa rispetto all’essere umano che, dalla sua nascita, si percepisce come individuo».
Le piante invece nascono in interdipendenza e vantano una sorta di modello diffuso, non sono mai divise dal resto: «Questa è una delle cose che le rendono estremamente forti e resilienti. Si può tagliare una pianta fino al novanta per cento del suo corpo, ma questa riuscirà comunque a sopravvivere e a crescere di nuovo, proprio in virtù di questa sua modularità e di questa organizzazione multicentrica, dove le funzioni non sono tutte raccolte in unico centro, come funziona per gli esseri umani», sottolinea Stella Saladino.
«A noi se tagliano la testa moriamo, è inevitabile, se viene tagliato un pezzo di una pianta è molto probabile che sopravviva. Questo modello, ad esempio, si può applicare alla leadership: una leadership diffusa porta interconnessione tra le individualità che compongono un’organizzazione e può portare alla definizione di una vera e propria intelligenza collettiva, che è anche più difficile da neutralizzare».
La modularità, ad esempio, potrebbe salvarci dal cambiamento climatico? «Imparare a comprendere che la realtà è un insieme complesso di elementi, e che noi ne facciamo parte, potrebbe far prendere coscienza a molte persone del fatto che non siamo individui separati, ma siamo parte di un ecosistema e che le nostre azioni hanno ripercussioni su di esso. Questo è determinante nel modo in cui noi consideriamo o meno quello che ci circonda come interconnesso: l’essere umano deve imparare a concepirsi come parte di un tutto, non come individuo», dice.
«Le persone – continua – cambiano moltissimo dopo i workshop che propongo nelle aziende: di solito porto fisicamente le piante e spingo i partecipanti a osservarle. Li faccio partire da un’osservazione morfologica per arrivare alla deduzione di quello che la pianta ha compiuto, perché ogni forma ha una funzione nel mondo vegetale: se esiste quella forma è perché la pianta doveva risolvere un problema perché le piante, non potendosi muovere, cambiano forma per ottenere quello di cui hanno bisogno».
Osservando le piante, aggiunge Saladino, «abbiamo la possibilità di poter comprendere o poterci ispirare a loro per risolvere i nostri di problemi “copiando” le soluzioni messe in atto da loro. A ben vedere la storia industriale conta già degli esempi di come l’uomo si sia ispirato alla natura per risolvere problemi pratici. I fiori di bardana, ad esempio, hanno ispirato l’ingegnere svizzero Georges de Mestral nella creazione del velcro: lui ha pensato come una pianta in tempi non sospetti. Ha osservato come i fiori di bardana si attaccavano al pelo del suo cane quando andavano a fare le passeggiate e ha capito che il fiore aveva determinate caratteristiche che lo rendevano capace di uncinarsi al pelo del cane. In questo modo ha prototipato il velcro copiando quel meccanismo».