Cinque sensi Profumo di buono

Il piacere del cibo passa in primis dall’olfatto. Che è ben altro che un mero indicatore di appetibilità, ma ci racconta e ci descrive sociologicamente, culturalmente e gastronomicamente

Foto di Sonia Nadales su Unsplash

Quando entro in un ristorante che non conosco, ancora prima dell’arredo, a colpirmi è il profumo.
Il profumo è parte dell’esperienza, anzi, per me è l’inizio della formazione del pensiero che mi farà decidere se tornare o no (unico strumento valido di giudizio su un ristorante, per me: ho voglia di tornarci?).
Il profumo è parte dell’esperienza che dà inizio al pasto, e la sua modulazione può influenzare tutto.

Un buon profumo di cibo mi riporta alla nonna, mi riaccende – come solo il sapore può fare – i ricordi e mi evoca sensazioni di piacevolezza, di accudimento, di casa.
Essere avvolta da un profumo gradevole, mai chimico, mai prevaricante, mi predispone positivamente a ciò che sto per vivere.
Per questo molti grandi hotel hanno una loro essenza, che li identifica e li rende familiari ai loro ospiti speciali.
Allo stesso modo, un ristorante può avere il “suo” profumo, quel suo modo unico di presentarsi ai clienti dei suoi tavoli.
Mai profumo forte per le signore, mai fiori eccessivamente profumati ai tavoli. Mai camerieri che fumano durante il servizio, mai candele aromatiche in sala: quello che deve prevalere è unicamente l’aroma dei cibi che mangeremo, che non deve essere coperto da nulla.

Il profumo può anche diventare parte di un piatto, con l’estrazione di essenze che molti grandi chef hanno usato nelle loro creazioni: dalla provocazione del profumo di faraona di Massimo Bottura, al tabacco grande protagonista di tanti piatti dal sentore affumicato, con Davide Scabin tra i primi ad usarlo.
Un profumo è sicuramente il nostro primo approccio a ciò che assaggeremo, ed è l’indicatore naturale della sua salubrità. Un profumo cattivo è spesso sinonimo di una pietanza o di un ingrediente che è meglio non mangiare, a parte poche rare eccezioni. È un indicatore “naturale” ma spesso è anche un indicatore “sociale” e antropologico: alcuni odori per noi ripugnanti in altre culture sono preludio di piacevoli manicaretti.
Possiamo riprogrammare il nostro olfatto? Solo con l’abitudine, e cambiando le nostre intime convinzioni.

Il profumo di cibo è sicuramente puro ricordo: è quel campanello che risveglia nel nostro cervello emozioni che ci riportano al momento in cui l’abbiamo già sentito. È istantaneo, anche se spesso non riusciamo a coglierlo fino in fondo. Pensate per esempio alla degustazione di un vino: l’analisi olfattiva è determinante, ma per la maggior parte delle persone è molto complesso riportare a singoli elementi conosciuti il bouquet di un vino. Per arrivarci all’istante, invece, quando qualcuno più esperto dà un nome alla nostra sensazione. E quel “sentore di fiori bianchi” è finalmente presente e identificabile, ma non l’avremmo mai afferrato se non ce l’avessero suggerito.
Anche in questo caso, è l’esperienza a venirci in soccorso: i sommelier studiano i sentori del vino e abituano il loro naso a rimettersi in collegamento con il cervello, trasformando sensazioni olfattive in parole.
L’olfatto è dunque un senso da affinare, che ci apre ancora di più ai piaceri della tavola.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club