Il salario minimo di fatto in Italia c’è già, ci viene ripetuto dagli economisti, ed è vero. Si tratta delle retribuzioni fissate per ogni contratto collettivo nazionale (Ccnl) applicato, in cui in teoria dovrebbero rientrare tutti i lavoratori. La richiesta di una retribuzione minima, tornata al centro (o quasi) del dibattito politico-economico, di conseguenza si applicherebbe a quella piccola minoranza di dipendenti cui, in modo legale o meno, non viene garantito. Questa minoranza in realtà si allarga a tutti coloro che lavorano sotto la tutela dei cosiddetti Ccnl pirata. Numericamente sono ormai moltissimi, circa il 63 per cento del totale, sono stati sottoscritti da sigle semi-sconosciute o presenti solo in una determinata azienda e includono condizioni retributive sfavorevoli. Ma anche in questo caso parliamo di percentuali ridotte: solo il 3 per cento dei lavoratori secondo il Cnel e l’Inps è impiegato in luoghi di lavoro che adottano tali contratti.
Perché i lavoratori poveri, ovvero coloro che hanno un reddito inferiore al 60 per cento del reddito mediano, sono così tanti in Italia, ben il 9,9 per cento? Tra le ragioni vi è il fatto che anche i Ccnl firmati dai sindacati confederali, Cgil, Cisl e Uil, tendono a subire la spinta al ribasso di quelli pirata, e non è un caso che in alcuni settori “poveri” siano in vigore salari minimi inferiori ai 7 o agli 8 euro, per esempio nell’ambito della vigilanza, dei servizi di pulizia, quelli socio-assistenziali, nel commercio e nel turismo. Eppure i l’occupazione aumenta e in alcuni comparti vi è addirittura un record di posti vacanti. Allora forse il problema in Italia non è tanto trovare un lavoro, ma averne uno dignitoso.
I dati europei ci dicono una cosa interessante: il rischio di povertà è aumentato soprattutto dove era già alto, tra coloro che vivono in nuclei familiari in cui, come si dice in gergo economico, l’intensità di lavoro è bassa, ovvero in cui i componenti hanno avuto un impiego solo per il 20-45 per cento del tempo. Non sono inclusi qui solo coloro che svolgono un part time, naturalmente, ma anche quelli che magari sono stati occupati solo pochi mesi.
Ebbene, tra costoro nel 2021 il rischio povertà ha raggiunto in Italia il 43,1 per cento, superando anche il record del 2012, anno nero per l’economia italiana. Al contrario degli anni precedenti i nostri dati sono stati peggiori anche di quelli spagnoli oltre che di quelli medi europei e, ovviamente, di quelli tedeschi.
Sono invece migliorate le statistiche riguardanti coloro che sono in famiglie a intensità di lavoro media, alta o medio-alta. In queste ultime due categorie, che includono quanti sono occupati più di metà del tempo o addirittura full time, i numeri sono simili se non migliori (nel caso di alta intensità) di quelli UE.
In Italia dopo la pandemia si è assistito a un peggioramento delle diseguaglianze già presenti. L’aumento del rischio di povertà del 3,5 per cento tra chi lavora in modo saltuario e/o lavora part time, spesso neanche in modo continuativo, fa il paio con il calo del 3,1 per cento tra chi invece è occupato per gran parte del tempo.
A differenza di quanto accadeva nel 2019 nel 2021 solo nel nostro tra i grandi Paesi europei vi era un tale divario tra il livello di indigenza di chi riesce a lavorare full time e quello di chi per volontà, o più spesso, costrizione, invece può farlo solo poche ore.
Il rimbalzo post-Covid c’entra in tutto questo? Sì, perché sono tornati al lavoro coloro che, essendo già marginali e in settori con poche tutele, avevano perso il proprio impiego nel 2020. A causa della bassa produttività in settori come il commercio, la ristorazione e l’edilizia, gli aumenti salariali rimangono limitati, nonostante dopo la pandemia abbiano vissuto un vero e proprio boom.
A preoccupare è anche l’aumento del divario tra la percentuale di “working poor” e chi lavora a termine. Nel 2021 in Italia è stata del 21,6 per cento, dopo un calo artificiale nel 2020 (quando molti precari erano semplicemente a casa), mentre nella Unione europea questo divario è diminuito al 12,9 per cento dalle cifre superiori al 16 per cento che si erano raggiunte tra 2015 e 2019.
Si tratta spesso delle stesse persone che lavorano poche ore e in modo discontinuo, nei settori già citati. E questi dipendenti sovente sono di origine straniera. Anche su questo aspetto sono cresciuti i divari. Rispetto al 2019 e al 2020 sono aumentati molto più in Italia che nel resto della UE i working poor immigrati, raggiungendo il 26,9 per cento, mentre tra gli italiani sono rimasti stabili o, se prendiamo come riferimento il periodo pre-Covid, sono addirittura scesi, al 9 per cento.
Qual è la lezione che possiamo ricavare da questi dati? Parlare di salario minimo non basta. Il lavoratore italiano a tempo pieno e a tempo indeterminato, ovvero la maggioranza dei dipendenti, in fondo non rischia la povertà più degli europei nelle stesse condizioni. Le differenze sono quelle che interessano gli altri, i soggetti marginali, stranieri, precari, i lavoratori saltuari, che in Italia sono spesso molto più poveri degli stranieri, dei precari, dei lavoratori saltuari che si trovano nel resto dell’Europa occidentale.
C’entrano anche altri fattori, quelli che tipicamente influenzano le disuguaglianze oltre che il valore in sé della retribuzione. Ovvero la formazione, per coloro che non hanno le competenze richieste, l’integrazione, visto che stiamo parlando in moltissimi casi di immigrati, il welfare che può consentire in particolare alle donne di lavorare a tempo pieno se lo desiderano.
Le responsabilità della ricucitura del tessuto sociale così sgualcito non sono solo delle aziende e dei salari che dovrebbero pagare, ma anche della governance pubblica, che non può pensare di fare come sempre a scaricabarile, sarebbe troppo facile.