Salvo GiorgiaL’esultanza di Salvini per il ponte sullo stretto è un patetico esercizio elettorale

L’annuncio del leader leghista, sempre più in difficoltà nella maggioranza, è solo una bandierona da sventolare: lui esalta l’opera e promette che entro il 31 luglio del 2024 verrà firmato il progetto esecutivo. Non a caso è l’anno delle europee

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Che sia un esercizio elettorale lo si capisce dall’iniziativa lanciata da Matteo Salvini per oggi e domani: mille gazebo in tutta Italia per «rivendicare i successi all’indomani dell’approvazione in Consiglio dei ministri del Decreto Ponte…». Poi aggiunge anche l’autonomia regionale e la riforma fiscale, certo, ci mancherebbe. Tuttavia è chiaro quale sia la prima medaglia che appunta sulla giacca. Appena finisce la riunione, il capo leghista esce dalla sala e si precipita a registrare un video in cui annuncia la «giornata storica» dopo 50 anni di chiacchiere: «L’opera più green del mondo, che darà lavoro a decine di migliaia di persone per tanti anni, assolutamente sicura, che verrà certificata dai più grandi ingegneri delle più importanti università d’Italia e internazionali».

Parole roboanti da comizio, che ripeterà nei gazebo nel fine settimana, quella che lui considera l’occasione per «rafforzare la campagna di tesseramento e – udite udite – valorizzare la Festa del Papà con manifesti ad hoc». Cosa c’entri la festa del papà non è chiaro, ma è un modo per precisare che i figli devono avere una madre e un padre e non il genitore 1 e il genitore 2. Alla faccia di quella “zecca” di Elly Schlein e della cultura woke e gender fluid.

In altri tempi il leader del Carroccio avrebbe speso una parolina in più per l’autonomia differenziata, si sarebbe fatto fotografare in mezzo ai governatori del nord con l’indice e il medio aperti a V in segno di vittoria. Battaglia storica di un partito nato dagli istinti secessionisti, dagli slogan calcistici Forza Vesuvio, dal «dagli al terrùn», per poi approdare alla più mite devolution e infine al referendum per l’autonomia differenziata. Ora Salvini invece posta foto con i governatori di Forza Italia della Sicilia e la Calabria, che fanno finta di guardare stupefatti il modellino del Ponte sullo Stretto di Messina a una solo campata, lungo 3 chilometri, «il più bello e più sicuro del mondo», in una delle aree più sismiche del pianeta, a cavallo su due Regioni che non hanno l’alta velocità. Se per questo neanche collegamenti ferroviari decenti. Una cattedrale nel deserto.

Ma veniamo alla sostanza politica della questione. Salvini ha bisogno di spazio vitale, si sente stretto nel ruolo di comprimario o perfino di spalla di Giorgia Meloni, che è costretta a polarizzare il dibattito da quando c’è la Schlein. Il rischio è che in mezzo alle due donne non ci sia più erba da brucare. Un rischio che potrebbe riguardare anche altri, da Giuseppe Conte a Carlo Calenda. Non è detto che finisca così: c’è tempo e tanto filo da tessere ancora. Però le precipitazioni alchemiche della politica riservano sorprese ed esclusioni dolorose e repentine, come quella che si verificò con la segreteria di Walter Veltroni e la sua formidabile campagna elettorale del 2018. Vinse Silvio Berlusconi, perse Veltroni ma con 12 milioni di voti, quanti ne sono serviti al centrodestra il 25 settembre per avere una solida maggioranza in Parlamento.

Paleolitico, ormai. Ma anche adesso il Pd potrebbe fare il botto alle europee, avvicinarsi a Fratelli d’Italia ma trovarsi sempre le macerie degli alleati intorno. Per non finire sotto le macerie dell’irrilevanza, Salvini ha bisogno di tenere testa al sud. Quasi il dieci per cento si è squagliato proprio in quelle Regioni dove Meloni macina consensi. Frotte di  sindaci, amministratori e militanti in Sicilia e in Calabria (non solo ovviamente) sono migrati dal partito dell’ex Capitano a quello della premier. Nel nord invece le ultime elezioni lombarde dicono che la Lega tiene, ha ancora una certa vitalità. In Veneto ci pensa sempre Luca Zaia a tenere alte le quotazioni. In Friuli Venezia Giulia, dove si vota ad aprile, a tenere alto il vessillo di Alberto da Giussano é  invece Massimiliano Fedriga.

Dove sta fallendo il progetto della Lega Nazionale è proprio tra i “terrùn”. Ricordo la campagna elettorale alle elezioni del 2018 per “Salvini presidente”: parlando con le tante persone che venivano a sentire il milanese milanista che inveiva contro gli immigrati, quelli “neri”, ti rendevi conto che erano quasi tutti ex elettori del MSI e di Alleanza Nazionale. Meloni? Non pervenuta. Il boom di consensi tra Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna fece decollare Salvini, che prometteva i porti chiusi e poi in parte li chiuse davvero, con la firma in calce congiunta di Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli.

Il resto della storia è nota, compresi i malumori al nord per una Lega che pensa al Ponte e non all’autonomia differenziata. I malumori sono stati schiacciati, Salvini si è rimboccato le maniche, si è infilato il casco del capo cantiere che inaugura opere pubbliche. Il Ponte è la grande ciliegia sulla torta per riportare in salute il progetto della Lega Nazionale. Non una bandierina, ma una bandierona da piantare in mezzo alla Stretto di Messina. Sarà una grande delusione, questa l’impressione. Sicuramente è una operazione mediatica di propaganda che ha un timing preciso per le elezioni europee, dove il ministro per le Infrastrutture rischia di rimanere ai margini del grande risiko che si aprirà dopo il voto. Quello dell’alleanza tra Popolari e Conservatori. O  Salvini mollerà gli amici estremisti sovranisti di Identità, accodandosi al carro di Meloni, o riuscirà a riportare a Strasburgo una consistente pattuglia di euroleghisti e giocare di sponda a Bruxelles nel nuovo ipotetico centrodestra. I voti del sud gli servono maledettamente, anche per tenersi a galla nella maggioranza di Roma e non finire di nuovo nella “ridotta” del nord.

Il ponte di Messina è la bandierona da sventolare, nonostante Meloni abbia più di una ragione per non consegnargliela. Non è scesa in sala stampa per fare una conferenza dopo il Consiglio dei ministri, non cita nelle occasioni pubbliche “l’opera storica” che unirà la Sicilia al resto d’Europa. Soprattutto, il decreto del Ponte è stato approvato “salvo riserve”, perché ci sono tante cose da risolvere, a cominciare dal fatto che la società che dovrebbe realizzarlo è la stessa che era stata bloccata nel 2012 dal governo Monti e messa in liquidazione. Ora bisognerà fare approfondimenti tecnici, risolvere i contenziosi tra Stato e società Stretto di Messina, superare i problemi legati al rispetto delle regole sulla concorrenza, perché all’epoca l’azienda era stata scelta con una gara. Ci vorrà un nuovo bando per evitare ricorsi vari.

Tutto risolvibile per il leader della Lega. Anche Silvio Berlusconi è saltato sopra il progetto («adesso non ci fermerà più nessuno»), a favore di Forza Italia e dei suoi governatori calabrese e siciliano, che avranno i loro rappresentanti nel Cda della società che realizzerà il ponte. Meloni non si espone più di tanto. Salvini invece esalta l’opera e promette che entro il 31 luglio del 2024 verrà firmato il progetto esecutivo ed entro dicembre sarà posta la prima pietra. Non è un caso: è l’anno delle europee. Salvo intese.

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