Il punto non è l’arresto o meno di Donald Trump. Nel momento in cui scriviamo (lunedì pomeriggio) non c’è ancora stato nessun arresto né si sa se ce ne sarà davvero uno. Eppure, in giro, non si parla d’altro. E insomma, lo arrestano o no, Trump?
Se la risposta dovesse essere sì, sarebbe clamoroso – anche se probabilmente tutta la faccenda durerebbe pochi minuti: il tempo di prendere le impronte e fare una foto mugshot destinata a campeggiare su milioni di magliette e pezzi di merchandising. Se la risposta fosse no, lo sarebbe lo stesso, perché non sapremo mai se davvero a tenere Trump fuori dal carcere sia stata la mancanza di elementi sufficienti a suo carico, o ragioni di ordine pubblico e di politica.
Sì, perché il punto, qualsiasi cosa succeda nelle prossime ore, non è cosa succederà a Trump, ma cosa potrebbe succedere per strada e nella politica americana.
Per capirlo, ci sono due punti di osservazione: uno è quello del magma dei trumpisti, persone e milizie di cui nessuno, neppure Trump, ha il reale controllo, e che agiscono in modo tanto organizzato (e armato) quanto imprevedibile. È a loro che Trump si è rivolto nel suo tweet dicendo «Protestate e riprendiamoci il Paese».
L’altro è quello del Partito Repubblicano. Dal 2016 il partito è ostaggio di Trump e delle sue bizze. Ostaggio in piena sindrome di Stoccolma per di più, perché per quanto sia evidente che Trump abbia eroso il partito da dentro – ne abbia trasformato la natura, ne abbia azzerato la credibilità e, per giunta, ne abbia anche ridotto il consenso – di fatto nessuno, neppure chi lo detesta cordialmente, riesce a liberare il partito dalla sua stretta. Anche chi non ha lo stomaco per sostenerlo (come la senatrice del Maine Susan Collins), non ha comunque il coraggio di attaccarlo apertamente.
Le primarie della scorsa estate per le midterm hanno dimostrato come il suo carisma e la sua capacità di mobilitazione possano ancora decidere della vita e della morte dei candidati repubblicani e, per giunta, i sondaggi per le primarie dell’anno prossimo lo danno avantissimo.
Ragion per cui nessuno dei rappresentanti repubblicani ha davvero voglia di dargli torto. Allo stesso modo, però, nessuno ha voglia di essere considerato partecipe di un’esortazione all’insurrezione, come quella scritta da Trump sul suo social Truth.
Così, i nomi più blasonati del partito, quelli che vorrebbero liberarsi di Trump una volta per tutte, ma che non sanno come fare perché hanno bisogno come l’aria dei suoi voti (e soprattutto di essere risparmiati dalla sua propaganda distruttrice), si stanno muovendo con grande cautela. Dicono e non dicono. Difendono e non difendono. Auspicano che non ci siano disordini, ma badano a non urtare la sensibilità di chi, quei disordini, potrebbe crearli.
Il più abile, in questo camminare sul filo, è stato, almeno sin qui, Kevin McCarthy, speaker della camera ex antitrumpiano diventato, con il tempo e la convenienza, supertrumpiano.
Nelle scorse ore ha dichiarato che se davvero Trump venisse arrestato, si tratterebbe di «un oltraggioso abuso di potere politicamente motivato». Allo stesso tempo però ha esortato tutti alla calma dicendo: «Vogliamo calma là fuori». Lo stesso ha fatto l’ex vice di Trump, Mike Pence (lo stesso cui i vandali aspiranti golpisti del 6 gennaio volevano tagliare la testa ): da un lato ha liquidato l’idea di incriminare l’ex presidente come «sorprendente e politicamente fondata», dall’altro ha esortato chiunque voglia protestare a farlo in modo «pacifico e legale».
L’ondivago senatore del South Carolina Lindsey Graham (prima oppositore di Trump, poi suo sostenitore, poi chissà), si è tenuto sul vago, dicendo che se davvero Trump venisse arrestato si tratterebbe di un affarone per la sua propaganda. Come lui hanno fatto molti altri che, in equilibrio sul filo sottilissimo tra difendere un Presidente e un candidato indifendibile (indipendentemente da questa specifica vicenda penale) e attaccare il padrone del loro partito, hanno scelto di attaccare la procura distrettuale di New York e buonanotte.
Certo, ci sono le eccezioni. E curiosamente sono arrivate dal fronte più trumpiano di tutti. Marjorie Taylor Green, più trumpiana di Trump e sostenitrice delle teorie QAnon, per esempio, è così salda nelle sue posizioni da aver esortato a tutti a stare a casa in caso di arresto, perché tanto ci penseranno le elezioni (ma non erano una truffa?) a fare giustizia: «Non abbiamo bisogno di protestare contro la pianificazione dei Democratici Comunisti di arrestare il presidente Trump. Questi idioti stanno suggellando il proprio destino nel 2024».
L’altra eccezione è rappresentata dal convitato di pietra di queste elezioni: Ron DeSantis, il popolarissimo governatore della Florida, nonché unico sfidante credibile alle primarie repubblicane dell’anno prossimo.
Lui non ha detto niente. Non una parola. Il suo profilo Twitter raccoglie dichiarazioni su quanto scellerata sia stata (tre anni fa) la politica dei lockdown e su quanto efficace sia stata la sua gestione dei danni dell’uragano Ian lo scorso settembre. Per il resto, non una parola.
Forse è per questo che, oggi, DeSantis sembra l’unico di cui Trump sembra avere almeno un po’ paura. Perché DeSantis è l’unico che non lo teme, non lo blandisce, non lo difende, non lo attacca.