Qualcosa di simile a quanto detto sulla sgangherata internazionale putiniana vale per l’accozzaglia di nazioni che fiancheggia la Russia. L’Economist ha calcolato un indice sui «compari di Putin» a partire da tre aree: la diplomazia (per esempio nei voti alle Nazioni unite), la cooperazione militare e quella economica, incluse le forniture energetiche. Questo «B team» si sviluppa in tre gruppi di Paesi. Vediamoli.
La coalizione dei falliti
Mosca sulla carta potrebbe contare sugli aderenti all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kyrgyzstan e Tajikistan). L’accordo vincola i contraenti a reagire in difesa degli altri membri se attaccati, e anche per questo il Cremlino cerca di manipolare il lessico su una guerra smaccatamente offensiva. Con l’eccezione del regime di Alexander Lukashenko, base logistica dell’esercito russo per l’invasione, hanno criticato in forme e modi diversi l’aggressione all’Ucraina.
Solo Stati canaglia come Iran e Corea del Nord hanno accettato di armare la Russia, rispettivamente con droni e munizioni d’artiglieria. Contando Minsk, si tratta di tre Paesi contro i trentuno che si sono mobilitati nel mondo libero mandando materiale ed equipaggiamento bellico a Kyjiv. Soltanto quattro governi (Nicaragua e Siria oltre ai soliti Lukashenko e Kim Jong-un) si sono sempre allineati a Mosca nelle sette risoluzioni votate all’Onu a partire dal 2014, anno dell’assalto alla Crimea.
Un’altra mezza, sporca dozzina – in cui figurano Bolivia, Eritrea e Mali – lo ha fatto almeno due volte. Cosa le accomuna? Non sono democrazie, semmai l’esatto contrario, e la presa sul potere di chi le comanda dipende dalle milizie o dai mercenari russi. Nel 2014 Vladimir Putin poteva invero contare su più voti al Palazzo di vetro: una decina nel pallottoliere delle assemblee generali. Il fatto che gli aficionados si siano ridotti è un indizio di maggiore isolamento diplomatico.
La Soviet remembrance society
Una trentina di nazioni si definisce neutrale e all’Onu si è tendenzialmente astenuta. Questo pezzo di pianeta inquadra lo scontro come una faccenda tra potenze sviluppate che non lo riguarda. Un sottogruppo, pur senza aiutare Mosca nella pratica, tende a parteggiare per lei, magari organizzando esercitazioni con le truppe della Federazione o ripetendo il mantra sulle «provocazioni della Nato».
Algeria, Angola e Sud Africa hanno avuto legami storici con l’Urss. È in Africa che si rintracciano molte delle astensioni: Mosca ha finanziato i partiti attraverso compagnie minerarie, ha venduto armi sfruttando a proprio vantaggio l’embargo occidentale. Tra il 2010 e il 2017 il Cremlino ha sottoscritto sette patti di cooperazione militare nel continente, ne ha incassati altri venti tra il 2017 e il 2021, come ha fatto notare l’Atlantic Council. La Wagner è stata il lato più visibile delle ingerenze nella politica (e nelle elezioni).
L’asse degli opportunisti
C’è infine chi prova ad approfittare della confusione. In particolare, Paesi come Cina e Turchia provano a sfruttare le sanzioni per sostituirsi a Stati Uniti ed Europa nelle importazioni russe. La settimana prossima, il partner «senza limiti» di Putin Xi Jinping volerà a Mosca. Dietro la neutralità di facciata, Pechino condivide la narrativa sulle «provocazioni» dell’Alleanza atlantica, ma al tempo stesso cerca di minimizzare i contraccolpi economici del suo posizionamento.
Per il momento, gli alleati comunisti non hanno fornito armi alla Federazione. Un coinvolgimento in questo senso potrebbe cambiare le sorti del conflitto, e allargarlo. Ankara fa parte della Nato, ha inviato a Kyjiv droni e missili, ma dipende dalla Russia – di cui è competitor regionale – per il gas e le centrali atomiche in costruzione (ma Rosatom ha addentellati in Europa). La posa da wannabe mediatore a Recep Tayyip Erdogan serve anche in chiave elettorale; mancano meno di due mesi alle presidenziali.
L’India ha comprato il greggio degli Urali sottoprezzo che l’Europa e il G7 hanno smesso di acquistare, continua a fare shopping di sistemi d’arma made in Russia, però ha ridotto le esportazioni. L’astensione di Nuova Delhi e l’ambivalenza di Pechino, da sole, bastano a spiegare i grafici (come quello qui sopra) che pesano con chi stia il mondo in base alla popolazione. Con miliardi di abitanti, i due giganti valgono il 17,7 e il 18,47 per cento degli abitanti del pianeta.
Se il Cremlino ha incassato qualche nuova simpatia, lo ha fatto in ultima istanza tra le autocrazie. Una ragione in più perché le democrazie liberali non siano arrendevoli di fronte all’assertività di tiranni fragili, la cui caduta dipende pure da noi. Un’astensione in più o in meno all’Onu è un magro successo per Mosca: rinfaccia all’Occidente una reputazione problematica, segnala però anche una deterrenza che funziona (ancora).
«A un primo sguardo, potrebbe sembrare che una vasta parte del mondo stia sfuggendo all’Occidente – nel migliore dei casi adottando una postura neutrale e nel peggiore allineandosi a Russia e Cina. Ma questa raffigurazione è semplicistica. Non riesce a capire le origini delle posizioni non-occidentali nei confronti della guerra della Russia in Ucraina e minaccia di creare quella frattura tra il cosiddetto Occidente e tutti gli altri di cui alcuni commentatori si lamentano», ha scritto su Foreign Policy la presidente dell’International crisis group, Comfort Ero.
Nel voto all’Onu del marzo 2022 (qui sopra), 141 Paesi su 193 hanno condannato l’invasione. Un equilibrio simile ha respinto le annessioni illegali dei territori occupati, lo scorso ottobre. Come con i vaccini anti-coronavirus, in un primo momento il mondo libero non ha messo a fuoco le conseguenze globali della crisi in Ucraina, ma Putin ha manomesso la sicurezza alimentare planetaria. Nella cartografia di chi sta con chi, correggiamo lo schematismo bipolare: il Cremlino ha in pugno la fedeltà di un manipolo di impresentabili. Per tutti gli altri, c’è spazio di manovra.
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