Nel giorno di Pasquetta, la tranquilla cittadina abruzzese di Vacri – 1500 anime, in provincia di Chieti – sarà pacificamente invasa da migliaia di persone che si riuniranno qui, tra stradine e piazzette del centro, nel sacro nome dell’arrosticino, emblema rustico, godurioso e conviviale d’Abruzzo. A richiamare tanta gente sarà la sesta edizione di Arrostiland, il “rave gastronomico” organizzato dal 2016 (le edizioni 2020 e 2021 sono saltate per ovvie ragioni) dalla seguitissima pagina Facebook Abbruzzo di Morris. Qualcuno se la ricorderà forse per ragioni calcistiche, quando nel 2015 aizzò goliardicamente i tifosi pescaresi e dell’Abruzzo intero contro la federazione islandese, rea di aver richiamato in patria per una partita il calciatore Birkir Bjarnason, in forze alla squadra italiana, scatenando una serie di commenti veracemente abruzzesi; una “sheepstorm”, come la definirono con ironia gli ideatori, che fu ripresa anche da giornali e programmi televisivi. Ma il merito principale della pagina è appunto l’ideazione e organizzazione di Arrostiland, e dietro a tutto c’è in realtà Fausto Di Nella che nella vita si occupa di promozione territoriale (organizzando anche eventi importanti e istituzionali, in quanto direttore e responsabile progettazione del Movimento del Turismo del Vino Abruzzo e founder di Abruzzo Esperienziale). Abruzzo di Morris è il suo alter ego irriverente che si identifica appunto con lo spirito “antigovernativo” di Arrostiland: niente comunicati stampa, niente interventi delle istituzioni e niente presenzialismi, per una giornata all’insegna di allegria, convivialità e autogestione che nasconde in realtà un grande lavoro organizzativo e naturalmente nel rispetto delle leggi e della sicurezza di tutti.
Arrostiland 2023, quest’anno tutti a Vacri
L’idea nasce dal basso: «Qualche anno fa degli abruzzesi a Roma ci scrissero commentando un “festival dell’arrosticino” organizzato nella capitale, dicendo che si sarebbe dovuto tenere in Abruzzo, e che avremmo dovuto pensarci noi. Così abbiamo deciso di farlo davvero», racconta Di Nella. Per differenziarsi dalle normali scampagnate, però, decisero di ambientare la giornata in un borgo della regione anziché nei prati, coinvolgendo la popolazione e promuovendo i piccoli paesi della zona. «Pensavamo di fare fatica a trovare un Comune che accettasse, invece ci siamo trovati sommersi dalle richieste. Tanto che abbiamo dovuto istituire un’apposita commissione che valuta i dossier presentati dai sindaci, scegliendo ogni anno la location più adatta». Partito nel 2016, in estate, a Rocca Scalegna (seguita poi da Crecchio), dal 2017 la manifestazione si è spostata a Pasquetta – «L’emblema della giornata abruzzese in compagnia» – e nel cuore del Voltigno, il territorio montano che rappresenta l’epicentro della cultura dell’arrosticino, fermandosi due volte a Montebello di Bertona e poi a Villa Celiera, e crescendo nei numeri e nella risonanza. Nel 2020 era stata selezionata Vacri, ma l’appuntamento è saltato causa Covid: si è recuperato nel 2022 e anche quest’anno la cittadina si è aggiudicata il rave.
Funziona così: che vuole partecipare deve costituire un “gregge” (vale a dire una comitiva di almeno dieci persone, in numero pari tra uomini e donne) e iscriversi con una cifra di 5 euro ciascuno da versare sul conto della Pro Loco locale. In questo modo si finanziano le spese da affrontare per l’organizzazione (incluso il piano di sicurezza e la fornitura di elettricità) e si ha diritto a una postazione con panche e tavoli e corrente elettrica: chi prima giunge sceglie il posto che preferisce, ecco perché già dal primo pomeriggio di Pasqua in molti arrivano a prendere posizione e a familiarizzare con gli abitanti. Poi, mentre sul palco suonano band chiamate dall’organizzazione, ognuno si attrezza con l’occorrente portato da sé, incluso il cibo a cominciare dagli arrosticini: è previsto anche un premio a quelli più buoni (accanto a una serie di altri “riconoscimenti”). «Ma è più che altro un simbolo di convivialità: ognuno è libero di fare quello che vuole, c’è chi viene da fuori e porta le specialità della propria regione e quest’anno abbiamo anche un gregge vegano!», sottolinea Di Nella senza sminuire la «Forte componente folk di abruzzesità» e la grande partecipazione del pubblico: a cominciare dalla canzone composta ogni anno da un gruppo locale, inviata a tutti i partecipanti che la imparano a memoria e la intonano all’unisono: quest’anno è un rap verace e divertente. E il paese si prepara ad accogliere la folla – le prenotazioni sono state chiuse a seimila persone, il doppio dello scorso anno, ma c’è comunque spazio per chi voglia venire a fare una passeggiata e assaggiare qualcosa agli stand della Proloco, pur senza gregge – in maniera festosa e aperta: «Lo scorso anno una signora ha preparato 28 moka da 20 persone, offrendo il caffè a chi passava».
Dove nasce l’arrosticino
Ma da quand’è che l’arrosticino – prodotto semplice che però definire solo uno spiedino sarebbe riduttivo – è diventato il simbolo gastronomico d’Abruzzo? Le origini, spiega Fausto Di Nella, sono molto antiche e legate alla transumanza: «Nasce come moneta di scambio dei pastori che dai pascoli del Voltigno andavano verso il mare, fino a Foggia. Avevano solo pecore intere da scambiare, tramite baratto, con altri prodotti per la loro sussistenza. Ma così era difficile “comprare” cose più semplici, come la frutta o gli ortaggi: allora hanno iniziato a tagliare la carne in pezzi più piccoli, facendone spiedini che usavano come fossero “spiccioli”, per barattarli con prodotti di poco conto».
Come legno per infilzarli si usavano rametti di sanguinella, un piccolo arbusto selvatico che nasce nei boschi locali. Un’usanza, dunque, che ha circa cento anni ma che fino agli Ottanta è rimasta circoscritta alla zona del Voltigno e del Pescarese: è in questa zona, appunto, e in particolare nei paesi di Villa Celiera, Farindola, Montebello e Civitella Casanova, il centro della produzione e della cultura dell’arrosticino: «Non solo lì si fanno i migliori arrosticini, ma la tradizione è anche più “pura”. Già prima del consumo, simbolo di aggregazione e convivialità, il rituale parte dalla cottura, rigorosamente sulla brace nell’apposita “canaletta”, che un tempo non era altro che il canale di scolo dei palazzi che aveva la misura perfetta per appoggiarci gli spiedini. Persino il sale più adatto, né grosso né fino ma di una misura intermedia, si trova solo da alcuni tabaccai della zona. Più ci si allontana, più si perde il legame con la tradizione», racconta Di Nella. Oggi infatti gli arrosticini sono ormai onnipresenti nei menu dell’intera regione – dai rifugi allo street food e pure nelle pizzerie, dove fanno spesso da antipasto insieme alla focaccia – ma hanno colonizzato anche l’aperitivo milanese e qualche insegna romana (i più buoni in città sono quelli di Pastorie, trattoria moderna al Pigneto che porta il meglio d’Abruzzo entro il GRA non facendo rimpiangere troppo le fornacelle regionali). «Ma va bene lo stesso, è comunque uno strumento per collegare la nostra regione, non sempre ben conosciuta, a un prodotto molto amato».
Dal macellaio, tutto quello che c’è da sapere
Dalla materia prima alla lavorazione esperta delle carni, riguardo agli arrosticini non c’è nessuno che ne sappia di più di un macellaio. Gabriele Pompa, titolare della Macelleria Agricola Fratelli Pompa di Spoltore, a due passi da Pescara, rappresenta la quarta generazione di una famiglia di macellai, dedita alla preparazione di arrosticini artigianali dal 1950 (che oggi si possono ordinare anche online, spediti in tutta Italia a partire da 100 pezzi – il minimo sindacale, per una serata con gli amici che si rispetti – con tanto di video tutorial per la cottura). «Bisogna partire da una carne di qualità, e in particolare da una pecora giovane, che abbia le carni rosee e digeribili. L’arrosticino migliore resta quello fatto con le pecore abruzzesi, ma è difficile reperire animali giovani: i pastori locali tengono le pecore per il latte fino ai 14 anni e danno via gli agnelli, ma le bestie così vecchie sono buone solo per farle alla callara (uno stufato dalla lunga cottura pure questo tipico della transumanza, ndr). In Francia invece c’è un’altra cultura: ogni quattro anni si vende la pecora tenendo gli agnelli, in un percorso circolare che aiuta economia e sostenibilità». Così oggi Gabriele usa soprattutto pecore francesi, le cui carni sono più adatte rispetto a quelle irlandesi, rumene o spagnole che risultano più dure e più pesanti, lasciando spesso una sensazione “animale” in bocca che resta fino al risveglio.
Ma tanto fa anche la lavorazione: «La pecora va tolettata in modo particolare, eliminando la “pellicina” esterna più coriacea e tutti i nervetti e i tendini. Un buon arrosticino si scioglie in bocca, non si devono sentire parti dure».
Il taglio è l’altro passaggio fondamentale: «Ogni parte dell’animale richiede un taglio particolare, in un determinato verso. Per gli arrosticini solitamente si usano lombata, filetto, coscia, spalla e pancia. La parte del collo la utilizziamo soprattutto per gli hamburger, ma se la si lavora con attenzione può andar bene anche quella».
Poi c’è la frollatura: «Bisogna aspettare almeno otto giorni affinché la carne diventi tenera. Ma sempre rispettando i passaggi precedenti».
A questo punto, si può procedere con l’assemblaggio, alternando strati di carne magra e grassa per dare morbidezza e sapore: «Se si usa il cubo apposito, da cui si ottengono arrosticini più regolari e più piccoli, si inseriscono le fette; altrimenti si taglia la carne a pezzetti di circa un centimetro e mezzo di spessore, inserendo nello spiedino tre pezzi di magro e due di grasso alternati». Il costo ovviamente è diverso – 18,90 euro al chilo per quelli fatti a macchina e 22,90 per quelli a mano ma ognuno ha le sue preferenze -, e ci sono anche gli arrosticini di fegato (evoluzione recente, da Pompa sono fatti con fegato bovino fresco di ottima qualità, grasso di pecora e cipolla, ma c’è anche chi aggiunge alloro o peperone), quelli di pollo e quelli di ventricina: «Sono varianti che piacciono ma li chiamerei spiedini più che arrosticini», specifica Gabriele.
La versione gourmand ma autentica di Mattia Spadone
Con gli arrosticini si è confrontata anche la famiglia Spadone e in particolare lo chef Mattia Spadone, alla guida del ristorante stellato La Bandiera a Civitella Casanova, tra le “patrie” di questa specialità. Oggi affidato alla generazione più giovane al lavoro – con Mattia c’è, in sala, il fratello gemello Alessio: classe 1988, sono i figli di Marcello e Bruna -, il ristorante propone in menu dal 2015, riaggiornandolo periodicamente, l’Arrostigin: filetto di carne di pecora (quella di razza abruzzese proveniente da Valle Scannese, l’azienda a poca distanza da Scanno famosa soprattutto per gli straordinari formaggi realizzati dallo scomparso Gregorio Rotolo, e dalla sua famiglia), tagliato a mano e infilzato sui tradizionali ceppi di sanguinella, raccolti, puliti e sterilizzati dalla brigata e poi immersi nel gin prima del servizio: «Il legno di sanguinella è spugnoso e assorbe molto il liquido e i suoi aromi, che rilascia alla carne durante la cottura», spiega lo chef. La versione attuale – non sempre in carta, perché dipende dalla lavorazione dell’agnello che viene usato per intero: quando c’è il taglio giusto a disposizione, si fa – prevede che in tavola arrivi un piatto coperto da una cloche, in cui un pezzetto di brace fa bruciare lentamente delle foglie di falso pepe, delle erbe aromatiche e un tocchetto di grasso di pecora, a ricreare l’effetto aromatico della cottura tradizionale sulla brace.