Siamo ciò che nasciamo oppure no? Quanto codice genetico è impresso nei comportamenti che assumiamo, nelle scelte che prendiamo? Nelle malattie e nei sintomi che manifestiamo? Dicono ad esempio che ci sia una componente altissima di ereditarietà per quanto riguarda disfunzioni psichiche come la depressione o la schizofrenia, ma se parliamo di dismorfobie sociali? Di reiterazioni involontarie e inconsapevoli che incorpora figlio dopo figlio, genitore dopo genitore?
Nell’ultimo spettacolo Momo, ad opera dell’israeliana Bathseva Dance Company, il tema è proprio lo sdoppiamento. Uno sdoppiamento tra dentro e fuori, tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile, tra ciò che è antico e ciò che è inedito, ma soprattutto tra ciò che è volontario e ciò che invece giace dentro di noi, sepolto da secoli di storia? La ripetizione della sillaba “mo” non ce lo svela.
Sicuramente, il fatto che il corpo di ballo arrivi direttamente da Tel Aviv, dove ha debuttato pochi mesi fa, durante la serata del 10 dicembre 2022, ha il suo peso: senza scadere in spendibili e facili retoriche, il popolo ebraico contiene moltitudini. Sversato in tutti i continenti, migratorio e nomade per eccellenza, persecutorio e perseguitato. Ma se il regista Ohad Naharin ha voluto concentrarsi sulle radici telluriche della sostanza umana, ovvero sugli archetipi, su ciò che di più primitivo e imperituro giace in noi, dall’altra si muove anche ciò che è frutto di esperienze acquisite nel corso dell’esistenza, insostituibili, effimere, sottili.
Il peso e la profondità delle radici e la volatilità dell’esperienza: di un albero, di un tubero, di un fiore non vediamo che il gambo, i petali, le foglie, la testa. Non sappiamo che esso, se sradicato dal terreno al quale è ancorato, sul quale è sorto, in poco tempo muore. Ma il punto, oggi, è: si possono sostituire tali radici? Se ne può prescindere? Il lungo dibattito a proposito della nuova ondata di femminismo, che vorrebbe ridefinire il concetto stesso di gestazione, di maternità, di genitorialità e di corpo, il linguaggio che si modifica e si tronca per risultare più vago, dunque meno apodittico, meno tracotante, e infine gli appelli da parte della comunità scientifica e ambientalista che invitano ad alimentarsi, lavorare, consumare, muoversi in modo diverso, anzi, antitetico rispetto alle origini, rispetto alle abitudini, non ci dicono forse di sì?
Non sarebbe possibile se continuassimo a opporre al processo un concetto di “umanità” indistricabile e ineluttabile, così come i concetti astratti di “mascolinità” e “femminilità”. La società si muoverebbe su binari gerarchici, decisi in partenza. Forse da una parte è così. È un tema che non si esaurirà certo adesso. I diciotto danzatori di Momo dimostrano, o meglio, suggeriscono che conteniamo sì qualcosa di arcaico, ma che contemporaneamente possiamo compensarlo, bilanciarlo tramite una ricerca individuale, che ci sospinge più o meno distanti da questo nucleo basico, elementare, rozzo.
Nei brani dell’album Landfall composto da Laurie Anderson insieme a Kronos Quartet, si colgono gli elementi struggenti, evocativi e antichissimi che il corpo di ballo ha interpretato dividendosi letteralmente in due partiture coreografiche. Domenica 2 aprile, l’Europa ospita per la prima volta lo spettacolo al LAC di Lugano. Fondata nel 1964 a Tel Aviv da Martha Graham e dalla Baronessa Batsheva de Rothschild, l’arrivo di Batsheva Dance Company in Svizzera è un’occasione per accogliere ballerini di fama mondiale.
Ecco perché la città ha organizzato tre eventi durante il medesimo finesettimana, presentati dal settore di mediazione culturale del LAC: due workshop gratuiti di Gaga Dance per studenti di danza o aspiranti professionisti e un incontro introduttivo sulla storia della compagnia condotto da Lorenzo Conti, dal titolo “Da Tel Aviv alle origini del movimento attraverso le coreografie della Batsheva Dance Company”.