Didier Mariotti è un signore alto e dinoccolato, con la battuta pronta e lo spirito allegro. È una persona concreta e vivace, che sa mettere a suo agio l’interlocutore sia che si parli di di dosaggio e di fermentazioni malolattiche sia che si parli di idee e di pensiero, perché il suo lavoro in una delle più prestigiose Maison della Champagne è quello di mettere insieme vini e persone, e di farne un assemblage in grado di regalare piacere e benessere, interpretando a ogni vendemmia lo spirito e lo stile di una cantina che ha fatto la storia e che prende le sue origini da una donna intraprendente e determinata, in grado da sola di cambiare le sorti di una regione francese a vocazione contadina, facendola diventare uno dei più importanti riferimenti mondiali per il vino delle feste, simbolo stesso del lusso e della convivialità. Con il suo sguardo allegro nascosto dietro gli occhiali sottili, Didier scruta chi gli sta di fronte e prova a interpretarne i gusti, senza per questo dimenticare di dare la sua visione del suo mondo, che gli è ben chiaro: «Il senso del vino per me rimane connesso ad una sola questione: “Mi piace o non mi piace?”. Il vero piacere da ricercare nel vino è quello di condividere momenti. Sempre più spesso, ultimamente, capita che per fare i tecnici cerchiamo i difetti nel bicchiere, invece di goderci il momento. Noi facciamo il vino non perché voi parliate di lui mentre lo bevete, ma perché vi aiuti a rilassarvi, parlando di vita, e amore, e condividendo momenti emozionanti con le persone che preferite. Quando mi chiedono di raccontare un vino preferisco parlare di emozioni, della bellezza di un prodotto vivo, invece di percentuali di Pinot Nero o di Chardonnay, o di tempi in botte o di dosaggio di zucchero. Le emozioni le persone le comprendono, le percentuali sono sterili e servono solo a noi tecnici».
Abbiamo incontrato l’enologo in occasione della sua visita italiana, per la presentazione della nuova Grande Dame 2015 e del sodalizio con Enrico Crippa, chef interprete della filosofia legata alla garden gastronomy sulla quale la Maison ha puntato tutta la sua comunicazione gastronomica. La bottiglia è affiancata anche da un progetto artistico firmato da Paola Paronetto, che ha trovato nel vino di Veuve Cliquot un’ispirazione nuova e un grande legame che parte dalla terra, dal benessere che dà la natura e con il radicamento profondo nel territorio, che vale per lei e per le sue opere e anche per le vigne.
Veuve Clicquot è un’azienda strutturata, che ogni anno deve uscire con una bottiglia che ne identifichi lo stile, e che risponda a logiche stringenti, commerciali, di marketing e di brand: come si esprime la creatività di qualcuno che deve fare sempre lo stesso vino che sia riconoscibile e identificabile dal cliente? Anche su questo, Mariotti ha le idee chiare: «Non sempre creatività vuol dire creare qualcosa di nuovo. Per me ci sono due esercizi di creatività. Perché è più facile esprimere la propria personalità liberamente, mentre è un esercizio più sfidante creare qualcosa di identico con uve e vini base sempre diversi, che cambiano di vendemmia in vendemmia. La creatività per me è prendere un prodotto vivo da modellare sulle nostre idee. All’opposto, sul millesimo c’è comunque l’espressione di uno stile definito, ma si aggiungono il nostro tocco e la nostra sensibilità, e qui l’enologo ha l’occasione di dare una propria lettura molto personale della vendemmia dell’anno, che è sempre diversa. E poi c’è l’occasione di creare una nuova cuvée, che è un altro esercizio ancora diverso».
Perché se essere creativi è un affare da modulare, essere umili è invece il fattore determinante. Prosegue lo chef de cave: «Fare il vino mi ha insegnato a saper ascoltare, e a essere umile: perché non si può battere la natura, che è sempre più forte di noi e decide spesso al posto nostro, in questo lavoro. Bisogna accettare le buone e le cattive vendemmie, ma avere fiducia in se stessi e in quello che possiamo fare per renderle tutte migliori. Dico sempre che se non ci sono soluzioni, non ci sono problemi. Il vino mi ha insegnato a sdrammatizzare le cose. La bellezza di fare il vino è che la natura è la più forte, che noi non controlliamo quasi niente: e la vita non è molto diversa: non è da pianificare ma è da vivere, come un momento di condivisione».
Le questioni da dirimere sono molte, in cantina, e il cambiamento climatico è una delle grandi sfide del vino, che Mariotti mette al primo posto tra i pensieri strategici del futuro imminente: «Il cambiamento climatico è ormai evidente: le vendemmie sono sempre più anticipate e questo è un fatto inequivocabile. Quello che noi possiamo fare, come azienda attenta alla terra che è il punto di partenza del nostro lavoro è ridurre al massimo la nostra impronta carbonica, in tutte le maniere e nel più breve tempo possibile. Poi, tecnicamente, dobbiamo saper adattarci all’evoluzione della maturità delle uve, e saper bilanciare zucchero e acidità. Dobbiamo affinare le nostre capacità di selezionare le migliori uve possibili, nel momento perfetto di maturazione che ci consenta di fare il vino migliore: per questo da sei, sette anni degustiamo gli acini per seguirne l’evoluzione e vendemmiare nel momento perfetto. Bisogna essere all’ascolto della natura per prendere le decisioni più corrette: vogliamo sicuramente essere sostenibili, per fornire alle prossime generazioni vigneti sani. Per questo dal 2017 abbiamo deciso di non usare più erbicidi e da qualche anno abbiamo messo a disposizione dei nostri vignaioli degli esperti che li aiutino a fare le scelte più sagge e più efficaci sul lungo periodo». E aggiunge un tassello, che per ii francesi è già attuale e che per noi speriamo lo diventi presto: «Per noi la sostenibilità passa dal concetto di “durable”: deve essere qualcosa che sia durevole a lungo, che rimanga, che stia in piedi sia economicamente che per l’impatto sul pianeta, e ogni vignaiolo deve fare le sue scelte per la sua vigna. Noi, dal canto nostro, premiamo chi è in grado di fare dei passi avanti in questo senso, chi investe già tempo nel suo lavoro, dandoci uve sempre migliori. Ma non è per forza detto che le uve migliori vengano da vigneti biologici o biodinamici: non abbiamo un’evidenza scientifica che ce lo dimostri. Certo, dobbiamo proteggere i vigneti e lavorare sul nostro bilancio carbonico: questa è la vera sfida di lungo periodo. Il nostro obiettivo rimane comunque uno solo: produrre i vini più buoni possibili. Se riusciamo a farlo preservando il territorio e chi lo lavora e lì vive siamo stati bravi. Il modello davvero sostenibile è quello che funziona sul lungo termine e permette al contadino e alle generazioni successive di vivere correttamente e felicemente».
Che, forse, è una filosofia che accomuna questa grande Maison ai tanti piccoli e giovani produttori che stanno crescendo in Champagne e stanno lavorando a una nuova idea di vino in questo territorio, come conclude Didier Mariotti: « Sono molto contento di questa new wave, è bello che questo vino sia ormai percepito non più solo come vino delle feste, ma proprio come vino tout cour, e credo che parte del merito vada ai giovani, che stanno facendo prodotti diversi, che esprimono il terroir e la sua ricchezza, le sue diversità. Sono dei veri artisti del loro luogo, come noi lo siamo dell’assemblage. Non ci sono opposizioni: bisogna lavorare tutti insieme».
Tutte le immagini, courtesy of Veuve Clicquot