Qualche tempo fa negli Stati Uniti un architetto di nome Philip Johnson finì nel mirino della cancel culture. Aveva operato tra gli anni Quaranta e la fine del secolo scorso (il suo progetto più conosciuto è la Glass House del 1949 a New Canaan, in Connecticut) ed era stato anche direttore del Dipartimento di Architettura del MoMA di New York. Fu giudicato colpevole di aver appoggiato il nazismo ed essere stato un sostenitore della supremazia bianca. Con una lettera aperta, indirizzata allo stesso MoMA e alla Graduate School of Design dell’Università di Harvard, i firmatari – un centinaio circa, riuniti nel Johnson Study Group – chiedevano la rimozione del nome dell’architetto da tutti gli spazi pubblici e la sua esclusione da qualsiasi forma di onorificenza.
Per tutta risposta il MoMA allestì nelle sale intitolate a Johnson la mostra Reconstructions: Architecture and Blackness in America, in cui architetti, designer e artisti afroamericani provavano a reimmaginare l’architettura statunitense in una prospettiva più inclusiva. Forse non possiamo cancellare il passato, ma costruire un mondo che rispetti tutti è compito anche del design.
Nel suo libro “Decolonizing Design”, pubblicato lo scorso febbraio dalla casa editrice The MIT Press, Elizabeth Tunstall attacca il Movimento Moderno – di cui tra l’altro Philip Johnson fu uno degli esponenti di punta – accusandolo di aver escluso dal proprio progetto le comunità BIPOC (acronimo di Black, Indigenous and People of Color). Secondo Tunstall, che è la prima donna nera a essere preside della Facoltà di Design dell’OCAD University di Toronto, in Canada (e a presiedere una facoltà di design «in assoluto», come ci tiene a precisare), è necessario «decolonizzare il design», ovvero riparare ai danni del colonialismo riequilibrando i rapporti di potere. In questo modo, spiega, sarà possibile produrre un cambiamento non solo nei luoghi in cui si insegna e pratica il design, ma nel design stesso, che Tunstall intende in grande, come uno strumento per immaginare e plasmare il mondo.
Lesley Lokko ha un punto di vista simile. Anche lei prima donna nera a ricoprire un ruolo di responsabilità, questa volta come curatrice della prossima Biennale di Architettura di Venezia, in programma dal 20 maggio al 26 novembre, Lokko parla di essere «agenti di cambiamento» e punta per la prima volta i riflettori sull’Africa e sulla diaspora dei Neri, temi che già alla scorsa Biennale d’Arte di Venezia hanno ricevuto l’attenzione della giuria, con l’assegnazione dei due Leoni d’Oro a Sonia Boyce e Simone Leigh. La ragione è presto detta: nell’architettura, afferma Lokko, «la voce dominante è stata storicamente una voce singolare ed esclusiva» (quella del maschio bianco cisgender secondo Elizabeth Tunstall). La sua portata e il suo potere hanno «ignorato vaste fasce di umanità – dal punto di vista finanziario, creativo e concettuale». Per lei quindi la storia dell’architettura non è sbagliata, ma incompleta. «Ecco perché le mostre sono importanti», conclude: sono un’occasione unica per «arricchire, cambiare o rinarrare una storia».
Se la cultura prodotta da un gruppo di maschi bianchi che andavano in chiesa può esaltarci, allo stesso modo può essere frustrante, soprattutto per la Generazione Z. Nel film Tár, uno studente della Juilliard di New York dice che come persona BIPOC pangender gli è impossibile prendere sul serio la musica di Bach: «Non ha generato tipo venti figli?», chiede alla sua insegnate Lydia Tár-Cate Blanchett. Che fare allora? Possiamo “cancellare” quella cultura, preferendo magari Anna Thorvaldsdottir a Bach, come lo studente della Juilliard. Oppure possiamo cercare figure rimaste nell’ombra, escluse dai libri, trascurate dall’establishment, come fa Katy Hessel nel libro La storia dell’arte senza gli uomini (Einaudi). In ogni caso la vera sfida, come scrive anche Tunstall in “Decolonizing Design”, è creare oggi le condizioni per una società più equa domani.
Secondo WGSN, autorità globale in fatto di trend di consumo, il design rispettoso non pone più l’essere umano al centro, ma abbraccia una visione più olistica che si concentra sulle connessioni tra tutte le forme viventi, come animali e piante. Utilizzando le parole di Lesley Lokko: «L’equilibrio si sposta. Le strutture si sfaldano. Il centro non regge più».
Va in questa direzione il programma di BASE per la prossima Design Week milanese, in calendario dal 17 al 23 aprile. Con il titolo We Will Design, il centro culturale di via Bergognone 34 (in zona Tortona) presenterà infatti progetti di artisti, designer e studenti di tutto il mondo riuniti intorno all’acronimo IDEA, ovvero inclusione, diversità, equità e accessibilità. Una grande installazione luminosa del collettivo Claire Fontaine, fondato da Fulvia Carnevale e James Thornhill, accoglierà il pubblico all’ingresso, mentre negli spazi denominati “Temporary Home” ed “Exhibit” i lavori di cinque creative donne (Adi Hollander, Emma Sfez, Maria Varela, Sanne Visser e Louisa Wolf) si alterneranno alle riflessioni di scuole, studi di progettazione e designer emergenti su temi come parità di genere, disabilità, riciclo e sostenibilità. Mostrando che adottare una mentalità “all-clusive” può portare benefici a tutti.