L’ex presidente del Brasile Dilma Rousseff ha assunto il 13 aprile la guida della Nuova Banca per lo Sviluppo (Ndb) dei cosiddetti Brics – gruppo di Paesi che comprende Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. L’attuale presidente Luiz Inácio Lula da Silva, in visita in Cina, dal canto suo ha indicato come obiettivo quello di «liberare le economie emergenti dalla sottomissione alle istituzioni finanziarie tradizionali». Poi ha aggiunto: «Mi chiedo ogni giorno perché mai ogni Paese debba essere legato al dollaro per il commercio internazionale».
I Brics hanno fondato nel 2014 la Nuova Banca di Sviluppo che nel 2021 ha visto l’adesione degli Emirati Arabi, Bangladesh e Uruguay mentre l’Egitto dovrebbe essere il prossimo. Hanno nel frattempo chiesto di aderire formalmente ai Brics anche Arabia Saudita, Iran, Algeria, Argentina e almeno una decina di altri Paesi – tra i quali Turchia, Egitto, Messico, Nigeria e Indonesia –sarebbero interessati a farne parte.
Nel contempo, la Tunisia sta trattando un prestito internazionale con il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) da 1,9 miliardi di dollari e, seppur non ufficialmente, brandisce la possibilità di unirsi ai Brics per ottenere condizioni migliorative in termini di vincoli politico-economici.
La notizia dell’allargamento dei Brics è stata ampiamente commentata da molti autorevoli osservatori – di cui certo non faccio parte, ma non posso fare a meno di notare rilevare alcuni elementi di fondo di questa vicenda.
I «Brics plus» (così definiti dopo l’allargamento) rappresentano oggi il 43,3 per cento della popolazione mondiale e i cinque Brics fondatori ora contribuiscono al 31,5 per cento del Pil globale (ma la Cina contribuisce da sola in maniera preponderante), superando la quota rappresentata dai Paesi del G7 che è scesa al trenta per cento. Si prevede che i Brics contribuiranno a oltre il cinquanta per cento del Pil globale entro il 2030; la crescita media della quota del Pil Brics rispetto al Pil mondiale è aumentata del 2,75 per cento all’anno dal 1982 al 2022; quella del G7 sta scendendo del 1,26 per cento all’anno.
Ciò che sta emergendo è la richiesta da parte di un numero sempre maggiore di Stati, in particolare quelli che maggiormente soffrono gli effetti degli squilibri generati dall’unilateralismo, di una importante riforma dell’ordine globale attraverso il rilancio degli Istituti esistenti (Onu, Banca Mondiale, Fmi). Infatti, i Brics oggi hanno meno del quindici per cento dei diritti di voto nelle due istituzioni economiche più importanti, Fmi e Banca Mondiale.
L’invasione russa dell’Ucraina ha innescato un’inaspettata spirale distorsiva, ma mi sento di condividere l’autorevole parere di Marco Ricceri, segretario generale dell’Istituto di studi e ricerche Eurispes: «In queste condizioni, non vedo il formarsi di una «piattaforma antioccidentale» da parte della Russia, perché i Brics sono strettamente intrecciati all’Occidente».
Va colta l’occasione, io credo, di un rilancio e una rivisitazione delle istituzioni mondiali create dopo la Seconda guerra mondiale per mantenere la pace e la sicurezza internazionale, sviluppare relazioni amichevoli tra le Nazioni, promuovere migliori condizioni di vita, il progresso sociale e la tutela dei diritti umani.
La crescente richiesta di adesione ai Brics e una sempre più diffusa volontà di «de-dollarizzazione» sono sintomo di crescenti malcontenti da parte di Paesi che, o stanno crescendo economicamente o che non riescono a crescere come vorrebbero (discorso diverso per la Cina, che adotta esplicitamente una politica da grande potenza).
Come il caso dell’Argentina. Paese che all’inizio del ventesimo secolo era tra i primi cinque più ricchi del mondo grazie agli scambi commerciali e ai buoni rapporti in particolare con la Gran Bretagna, a quei tempi egemone mondiale. Allora l’Argentina esportava in grande quantità carne bovina, lana e cereali ma in seguito ha dovuto sopportare diversi default sovrani, con la popolazione che più volte è scesa in piazza armata di pentole e cucchiai per protestare – veemente ma pacificamente – contro le tante proposte di aumento delle tasse da parte dei vari governi (nel decennio 2012-2022 il Pil argentino è cresciuto a una media dello 0,3 per cento annuo). L’Argentina ha da tempo bisogno di nuove fonti di capitale e potere istituzionale internazionale, e oggi intravede il suo futuro più nei Brics che non nella vecchia Europa o nel Nord Atlantico.
O come la Malesia, il cui primo ministro Anwar Ibrahim lo scorso aprile ha dichiarato che «non c’è ragione per continuare a dipendere dal dollaro» (il Pil della Malesia nel 2022 è cresciuto del 8,7 per cento).
Guardiamo poi a petrolio e gas, due dei principali prodotti di esportazione al mondo. Tutte queste transazioni fino a ieri venivano fatte in dollari americani. Oggi Cina e Arabia Saudita stanno elaborando piani per fatturare il petrolio in renminbi. Russia e India stanno esplorando l’uso del dirham, la valuta degli Emirati Arabi Uniti (Eau), per concludere accordi petroliferi tra di loro. Russia e Iran stanno prendendo in considerazione l’uso di una stablecoin sostenuta dall’oro per i pagamenti internazionali. La Cina acquista petrolio e gas pagando in «petro-yuan» con forme di pagamento di immediata convertibilità in oro: Russia, Nigeria e Arabia Saudita si sono resi disponibili.
Lo scorso febbraio, in un articolo pubblicato su Foreign Affairs, Carla Norrlöf (svedese di origine etiope), professoressa di Scienze Politiche all’Università di Toronto, dichiarava: «Il sistema finanziario centrato sul dollaro sta diventando meno diffuso ma più radicato dove persiste. Per salvaguardare la gerarchia valutaria esistente e limitare la tendenza a lungo termine verso la multipolarità valutaria, gli Stati Uniti devono usare l’arte di governare in modo da promuovere il bene pubblico di un ordine internazionale liberale. Gli Stati Uniti non potranno permettersi di alienarsi alleati chiave o di gran parte della comunità internazionale e preservare ancora l’era del dollaro unipolare».
Il ruolo del dollaro comunque non è in discussione. Ciò che gli economisti chiamano «seigniorage» mette il dollaro in un primato che non trova giustificazione per un disegno politico-egemonico ma più per «necessità» del resto del mondo: le riserve mondiali in dollari seppur in diminuzione, costituiscono ancora il 58,8 per cento del totale, con l’euro al 20,6 per cento, lo yen giapponese al 5,6 per cento, il renminbi cinese al 2,79 per cento e altre valute minori a seguire.
I Brics hanno sempre riconosciuto il ruolo centrale delle Nazioni Unite e di altre istituzioni internazionali quali lo stesso Fondo Monetario e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, di cui ovviamente chiedono una riforma. Anche al vertice informale del G20 a Bali i Brics hanno riconosciuto esplicitamente il ruolo del G20 quale principale strumento economico per la costruzione di un modello più equilibrato e valido di sviluppo globale.
In un interessante articolo l’editorialista economico del Guardian, Larry Elliot lo scorso febbraio scriveva: «I Paesi in via di sviluppo pongono giustamente la seguente domanda: perché la Banca Mondiale dovrebbe essere più brava a finanziare la nostra transizione verde che a farci uscire dalla povertà? È una buona domanda. Il cambiamento climatico è una questione di crescente importanza per la Banca Mondiale, ma ha anche del lavoro da fare per aiutare i Paesi in via di sviluppo a rafforzare le loro economie, costruire la resilienza contro le future pandemie, ridurre le disuguaglianze e alleviare gli oneri del debito. Se l’attenzione sulla crisi climatica inizierà a distrarci da altre questioni, il risultato sarà un’ulteriore frammentazione del sistema multilaterale…».
Sono in molti a credere che ci sia poco futuro nel cercare di affrontare i problemi degli anni Venti di questo secolo con istituzioni create negli anni Quaranta del secolo scorso. E la spinta ambientalista intrapresa dalla Banca Mondiale a seguito dell’Agenda 2030 dell’Onu lascia alcuni dubbi sul tavolo.
L’edizione 2022 del rapporto «The State of Food Security and Nutrition in the World» (Sofi) pubblicato congiuntamente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), dal Fondo Internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad), dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), dal Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Wfp) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Who), presenta infatti un quadro a dir poco allarmante: il numero di persone colpite dalla fame sono salite nel 2021 a ottoventoventotto milioni, quarantasei milioni di persone in più rispetto all’anno precedente e centocinquanta milioni in più rispetto al 2019.
Il Sudafrica, che ha assunto per il 2023 la presidenza Brics 2023, ha già annunciato che lavorerà sul piano regionale, con riferimento al continente africano, impegnando i Brics nel sostegno alle iniziative dell’Unione Africana (Ua), il principale organismo di coordinamento del continente, e soprattutto al suo programma strategico «Agenda 2063».
In grande sintesi l’avanzamento tecnologico e le nuove supply chain a questo agganciate, le nuove reti di commercio globale, gli effetti della globalizzazione, la crescita economica spaventosa della Cina, la crescita economica e demografica dell’India, più di cinque miliardi di persone connesse a internet, la crescita delle diseguaglianze, costituiscono un mix di fattori socio-economici in continuo sviluppo alimentando una crescente domanda di una più adeguata rappresentanza dei Paesi emergenti e in via di sviluppo alla governance dei processi globali (senza tener conto degli effetti che il conflitto in Ucraina induce, oltre all’indescrivibile perdita di vite umane).
Tutta l’economia politica ora si svolge inevitabilmente su un palcoscenico globale. In un mondo in cui così tanta attività economica e così tante prospettive di sviluppo economico sono ora modellate dai complessi legami formati dalle catene globali di valore e produzione – e persino dalle ricchezze e povertà globali – la prospettiva, ancora sostenuta da alcuni, di avere a nostra disposizione un ritorno a un mondo mitico di economie nazionali autonome è semplicemente delirante.
È necessario, quindi, riflettere sulla costruzione di un nuovo assetto delle istituzioni globali che sappiano non solo evitare un terza guerra mondiale ma soprattutto far crescere con maggior armonia l’economia globale salvaguardando i diritti dei popoli, contrastando la violenza e la povertà ancora presenti in molte parti del nostro pianeta.