Ingranaggi sensibiliL’intuizione di Freud e le tre ferite della specie umana alla percezione di sé

In “Come il cervello crea la nostra coscienza” (Raffaello Cortina editore), il neuroscienziato Anil Seth spiega come gli studi scientifici nel corso dei secoli hanno cambiato la definizione di coscienza, da indagine prettamente filosofica a oggetto della ricerca biologica

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Una tradizione influente, che risale perlomeno a Cartesio nel xvii secolo, sostiene che gli animali non umani sarebbero privi di ipseità cosciente perché non avrebbero una mente razionale in grado di guidare il loro comportamento. Sarebbero “macchine bestiali”: automi fatti di carne, ma privi della capacità di riflettere su se stessi.

Non sono affatto d’accordo. Nella mia concezione, la coscienza ha a che fare più con l’essere vivi che con l’intelligenza. Siamo coscienti di noi stessi proprio perché siamo macchine bestiali. Sosterrò che le esperienze di essere voi, di essere me, emergono dal modo in cui il cervello predice e controlla gli stati interni del corpo. L’essenza dell’ipseità non è una mente razionale né un’anima immateriale. È un processo biologico profondamente incorporato, un processo che sottende il semplice sentire di essere vivi che è alla base di tutte le nostre esperienze di sé, anzi di qualsiasi esperienza cosciente. Essere sé riguarda essenzialmente il proprio corpo.

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Nonostante la sua reputazione sia macchiata tra i neuroscienziati, Sigmund Freud aveva ragione su molte cose. Guardando a ritroso nella storia della scienza, ha identificato tre “ferite” che sono state inferte alla percezione di sé della specie umana, ciascuna delle quali rappresenta un avanzamento scientifico decisivo a cui si è resistito per lungo tempo. La prima ferita si deve a Copernico, il quale, con la sua teoria eliocentrica, ha mostrato che è la Terra a ruotare intorno al Sole, e non viceversa. Così facendo ci ha reso consapevoli di non essere al centro dell’Universo. Siamo soltanto un granello disperso in qualche parte della vastità, un punto celeste sospeso nell’abisso. Poi è venuto Darwin, che ci ha rivelato che condividiamo un antenato comune con tutti gli altri esseri viventi, un’idea che, sorprendentemente, trova ancora oggi resistenza in molte parti del mondo.

Immodestamente, Freud imputa la terza ferita contro l’eccezionalismo umano alla sua teoria della mente inconscia, che sfidava l’idea che la nostra vita mentale fosse sotto il controllo cosciente, razionale. Benché si sbagliasse su non pochi dettagli, Freud era nel giusto nel sottolineare che una spiegazione naturalistica della mente e della coscienza avrebbe rappresentato un’ulteriore, se non l’ultima, detronizzazione dell’umanità. Questi cambiamenti nel modo di vedere noi stessi devono essere salutati con favore. Più avanziamo nella comprensione di noi stessi, più cresce il nostro senso di stupore, nonché la nostra capacità di vedere noi stessi non come separati dal resto della natura, ma come parte integrante di essa.

Le nostre esperienze coscienti sono parte della natura proprio come lo sono i nostri corpi e come lo è il nostro mondo. Quando la vita finisce, finisce anche la coscienza. Nel pensare a questo sono riportato alla mia esperienza – alla mia non esperienza – dell’anestesia. All’oblio che ne è seguito, forse confortante, ma pur sempre oblio. Lo scrittore Julian Barnes lo dice in modo magistrale nella sua meditazione sulla morte.1 Quando arriva la fine della coscienza, non c’è più nulla – davvero nulla – da temere.

Da “Come il cervello crea la nostra coscienza”, di Anil Seth, Raffaello Cortina Editore, p. 360, 25€

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