Secondo un report di Mediobanca il mercato mondiale del caffè torrefatto nel 2022 vale 120 miliardi di dollari. E i consumi sono destinati a salire. Nei prossimi anni si prevede un aumento regolare delle quantità, con tassi di crescita compresi tra l’1% e il 2%. Un incremento che porterebbe a un consumo vicino a 208 milioni di sacchi nel 2030. Praticamente 3,8 miliardi di tazzine al giorno.
Peccato che secondo un altro rapporto, “A Brewing Storm” del Climate Institute di Sydney, le aree adatte alla coltivazione di caffè potrebbero dimezzarsi nel 2050. Il motivo principale sono gli sbalzi climatici che stanno già compromettendo molte produzioni del Centro-Sud America, Asia e dell’Africa.
È in questi luoghi che viene acquistato il cosiddetto caffè verde, cioè quello non ancora lavorato. Il Brasile ne è primo produttore, mentre noi italiani siamo tra i primi importatori. I chicchi che compriamo, dunque, vengono torrefatti in Italia. Trasformandosi in un’eccellenza da esportare, a sua volta, sia come prodotto che come rito.
Nei luoghi d’origine del chicco, il fattore climatico si intreccia, invece, con numerosi problemi, vecchi e nuovi. E una tempesta perfetta si nasconde dietro il caro tazzina che abbiamo notato sulla nostra pelle in questi mesi. Le questioni dei noli dei container, accise sui carburanti, costi energetici per la torrefazione, si uniscono, infatti, a piaghe come sfruttamento del lavoro, deforestazione in favore di altre colture e nuove esigenze agronomiche dovute al clima.
Professione Coffee Hunter
Il mondo dei chicchi, per essere salvato, deve diventare sostenibile per forza. E quanto prima. È possibile? I tempi della trasformazione dipendono innanzitutto dalla mole e dal tipo di produzione. Ma se si pensa che le torrefazioni artigianali e il mondo degli specialty coffee (monorigine di alta qualità) siano avvantaggiati solo perché lavorano su quantità minori, ci si sbaglia. Ce lo fa capire Francesco Sanapo, il titolare di Ditta Artigianale a Firenze, realtà con cinque caffetterie nel capoluogo fiorentino. Un’istituzione. Almeno una volta l’anno, lui che è un degustatore professionista, vola in un posto diverso del globo a cercare il “caffè migliore” appena dopo il raccolto. Nel 2022 è andata in onda pure una docu-serie su Gambero Rosso Channel che racconta un suo viaggio in Uganda. Quest’anno invece, Sanapo, ha scelto l’Etiopia, il Paese dove è nata la coffea arabica, la pianta originaria del caffè. Da lì, ha impostato una specie di reportage Instagram, dove i post pubblicati, oltre alle degustazioni di caffè, mostrano l’Africa idilliaca delle vesti colorate e folkloristiche.
Una delle immagini che lo ha colpito di più, però, non è stata proprio da cartolina: «Mentre ci spostavamo per le degustazioni nei dintorni di Adis Abeba ho notato delle punte di montagne con alberi sradicati» ci racconta. «Mi hanno spiegato che qui distruggono le foreste dove cresce il caffè per piantarvi l’eucalipto. Perché mettere degli alberi che impoveriscono il terreno e creano numerosi dissesti? Sono i cinesi che hanno investito su questo albero per soddisfare la domanda di legno».
Essere coffee hunter per lui significa sì scovare i chicchi più pregiati e gustosi. A patto però che siano prodotti con una filiera etica. Il lavoro di Sanapo, quando non gestisce i suoi locali fiorentini, funziona più o meno così: «Appena arrivato al centro esportazione, mi preparano un banchetto per la degustazione. Assaggio trenta caffè alla volta e do il mio feedback – ci spiega – cioè un punteggio secondo la scala della Specialty Coffee Association (associazione che definisce gli standard internazionali per la valutazione del caffè, ndr). Questa decreta che un caffè per essere definito specialty deve avere un punteggio sopra 80. Ma per me deve essere almeno 84,99. Un caffè potenzialmente da 85 punti (che nella scala equivale a un “eccellente”, ndr) sono disposto a pagarlo a partire da 6,50 euro in su al chilo». La scala dell’associazione, una delle più importanti del settore, tiene conto sia della qualità della materia prima, sia di tutti i procedimenti successivi.
Alcuni produttori Sanapo li conosce e c’è un rapporto di fiducia. Questo rapporto si costruisce spesso visitando il luogo delle coltivazioni. Dove avviene anche la verifica della fase di essiccazione del chicco. «In Honduras ho conosciuto un produttore, Arturo Pinto, che fa un caffè incredibile, all’interno della sua azienda agricola Finca Nueva Amanecer. Una volta – racconta – quando sono tornato per comprare un carico, non aveva nulla perché aveva dovuto ripiantare tutta la piantagione, sterminata da una malattia chiamata “leaf rust”. Mentre parlavamo, ha preso il cellulare e mi ha fatto vedere le foto della bambina appena nata. Di lui conosco l’intera famiglia. Per non abbandonarlo quell’anno decisi di comprargli il caffè sapendo che l’avrei ricevuto negli anni successivi, una volta ripresa la produzione del caffè nella sua finca».
Un microproduttore come lui può tirar fuori cento sacchi a raccolto. Poco. Ecco perché è importante dare valore alla qualità e non comprare il caffè per il prezzo deciso dai mercati e dalla borsa. I piccoli produttori a volte sono costretti a vendere il loro caffè in raggruppamenti/consorzi che fanno perdere la qualità e la tracciabilità del prodotto. Tutto per smerciare i sacchi e soddisfare le richieste di grandi quantità a poco prezzo.
Spese agronomiche
In questi anni i grandi players italiani del caffè hanno ideato diversi progetti con varie declinazioni di sostenibilità. Caffè Vergnano, ad esempio, ha lanciato nel 2018 Women in Coffee, progetto nato per sostenere piccole realtà di donne coltivatrici di caffè. Fondazione Lavazza, invece, ha creato iTierra! con cui vengono formati i coltivatori di caffè per migliorare la qualità e promuovere l’attuazione di pratiche agricole sostenibili. Questi solo per citarne alcuni.
Poi c’è Altromercato. La storica realtà di commercio equo e solidale è stata fondata nel 1988 con la missione di creare e sostenere filiere etiche. Valeria Calamaro, responsabile marketing e sostenibilità, ci chiarisce subito le conseguenze devastanti del cambiamento climatico. Altromercato, che produce essenzialmente Arabica ma anche Robusta, compra il caffè verde in Guatemala, Nicaragua, Messico, Perù, Uganda, India e Brasile. Senza bisogno di aspettare il 2050, la situazione in alcune zone è già tragica. «In Guatemala, dove sono stata nell’ultimo viaggio, la temperatura è aumentata di più di un grado, durante la stagione delle piogge – racconta la manager – ormai le precipitazioni sono più lunghe e creano disastri ecologici. La pianta di caffè, col caldo, fiorisce in anticipo o ha fioriture multiple. Questo significa che disperde le sue energie e si ammala facilmente. Ha produttività più bassa e i costi per mantenerla sono maggiori».
Il lavoro minorile
La prima cosa da fare a livello agronomico è aumentare la manodopera. Le piante hanno bisogno di più cura e spesso vengono disposte a terrazzamento. Bisogna spostarle verso l’alto dove le temperature sono meno torride, trovar loro un contesto che faccia ombra e le protegga dal sole che brucia.
Uno dei problemi che affligge questo mondo, poi, è il lavoro minorile. Sanapo ci ha raccontato di aver rinunciato una volta a degli ottimi chicchi “solo” perché aveva visto alcuni bambini che raccoglievano nei campi dell’azienda. Queste situazioni, comuni anche ad altre filiere, possono essere arginate solo con un benessere diffuso nella comunità. Ci racconta il direttore generale di Save The Children Italia, Daniela Fatarella: «Noi lavoriamo con alcune aziende virtuose nel mondo del caffè che ci mettono in condizione di creare progetti con un approccio olistico. La lotta al lavoro minorile, infatti, può funzionare solo se viene rafforzato il benessere della comunità a tutto tondo: parliamo di educazione, di sviluppo economico. Di percorsi di inserimento e di integrazione».
Prefinanziamento per sostenere i produttori
Che cosa possono fare allora le aziende o le realtà presenti in questi Paesi per sostenere la filiera a livello economico? «Prima di tutto comprare caffè» risponde Sanapo. Ma questo non basta perché i coltivatori hanno bisogno di consulenze agronomiche e anche di sovvenzioni per portare avanti le piante fino al raccolto o pagare i braccianti. Altromercato opera in questo modo. «Siamo a conoscenza delle difficoltà e gli svantaggi finanziari incontrati dai nostri produttori nell’ottenere un prestito che permetta di acquistare in anticipo gli strumenti e pagare i propri contadini» racconta Calamaro. «Così diamo loro la possibilità di accedere al credito in modo diretto tramite un prefinanziamento non inferiore al 50% del valore dello stesso. Nel caso in cui il prefinanziamento sia riferito a prodotti alimentari e rappresenti un valore consistente, poi, i principi del commercio equo e solidale consentono l’applicazione di un interesse ragionevole. Qui il tasso di interesse non deve superare il costo sostenuto dal compratore ove tali risorse finanziarie siano fornite da terze parti».
Nella costruzione del prezzo Altromercato applica inoltre un prezzo minimo garantito. Oltre al prezzo di borsa riconosce un premio fair trade, un differenziale biologico e in alcuni casi uno di qualità; nel 2021-2022 Il totale di questi premi è stato pari all’8,7% del totale valore del caffè verde (non torrefatto) acquistato.
Nonostante queste premesse l’orizzonte non è sempre roseo. «Un dato da non sottovalutare è la perdita di interesse dei giovani in questa attività, la coltivazione del caffè – ci spiega Calamaro – è considerata meno interessante, faticosa, a volte poco remunerativa e molti la abbandonano per andare all’estero. Si fa strada un nuovo scenario in cui potranno essere sempre più spesso le donne a seguire i cafetales (piantagioni di caffè, ndr) e a occuparsene». Le fa eco Sanapo che sottolinea l’assenza in molti casi di una visione imprenditoriale. «Voglio fare un esempio per far capire qual è l’attitudine in Etiopia. Ho chiesto a un produttore di nome Josef dove si vede tra 5 anni. Lui mi ha risposto: “Solo Dio lo sa”. Non aveva nessuna programmazione del suo futuro».