Il dilemma dell’arbitroLe regole del gioco nella partita dell’inflazione

Comprendere il ruolo degli attori istituzionali e le dinamiche di mercato in periodi di crisi non è sempre facile. Ne parla Stefano Feltri nel libro “Inflazione. Cos'è, da dove viene e come ne usciremo” (UTET)

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C’è una metafora che circola tra gli economisti che può aiutarci a trarre qualche conclusione da questo viaggio nei meandri dell’inflazione: quella dello stadio. Il premio Nobel Paul Krugman l’ha rubata al suo maestro e collega di Nobel William Nordhaus, possiamo prenderla in prestito per un attimo anche noi.

L’inflazione ricorda quello che succede in uno stadio durante una partita di football, o di calcio, per usare uno sport più familiare a noi europei.

Quando l’azione sul campo diventa particolarmente appassionante, per esempio quando l’attaccante arriva nell’area avversaria e si trova in un duello solitario con il portiere, alcuni spettatori spinti dall’emozione possono scattare in piedi per seguire meglio e per vivere più intensamente il momento.

La conseguenza, però, è che gli spettatori nelle file dietro non riusciranno più a vedere niente e, anche se non lo avevano preventivato, dovranno alzarsi anche loro. E così quelli nella fila ancora posteriore, finché tutto lo stadio non sarà in piedi.

Se poi i più esagitati dovessero anche alzare le braccia per incitare la propria squadra, ecco che ci troveremmo in una situazione disastrosa nella quale nessuno riuscirebbe più a vedere l’eventuale gol che tanto entusiasmo aveva suscitato.

Nella metafora di Krugman, le banche centrali cercano di riportare la situazione sotto controllo con un intervento sul campo: basta un fischio dell’arbitro a rallentare l’azione, o un cambio delle regole che rende più difficile segnare (il fuorigioco, nel calcio, in fondo serve a questo, a complicare un po’ la vita agli attaccanti).

Se la partita diventa noiosa, non c’è più ragione di stare in piedi e tutti tornano a sedersi. Ma è davvero un esito auspicabile? Nello stadio sarà tornato l’ordine, tutti potranno guardare liberamente un campo dove non succede niente di interessante.
Il fischio dell’arbitro che interrompe l’azione e annulla l’incentivo a stare in piedi, nella metafora di Krugman, è la recessione o comunque la frenata della crescita.

Gli spettatori sono scontenti in entrambi gli scenari: quello in cui la partita diventa così interessante che il caos sugli spalti impedisce di seguire le azioni, e quello in cui tutti stanno seduti a vedere un grigio pareggio senza reti.

La sfida per la politica economica, monetaria e per la società nel suo complesso è riuscire a ottenere al contempo una partita avvincente e la gente seduta al proprio posto che tiene un comportamento cooperativo, cioè si gode la partita senza creare problemi agli altri.

Nel migliore dei mondi possibili, anche al momento del gol gli spettatori applaudono composti. Uno scenario che in economia è quello di una moderata crescita dei prezzi (gli applausi vivaci) ma senza eccessi che compromettano la fruizione della partita (quindi senza che i prezzi aumentino abbastanza da costringere tutti gli altri, concorrenti, fornitori e dipendenti ad adeguare al rialzo le proprie richieste), il tutto mentre l’azione sul campo si sviluppa appassionante (la crescita del Pil marcia spedita).

Paul Krugman in questi anni ha prima sottovalutato i rischi di inflazione, poi ne ha minimizzato le conseguenze e infine ha cercato di sostenere soluzioni che non passassero per una recessione traumatica o altri interventi che mettano a rischio la crescita economica e la spesa pubblica.

Non sorprende, quindi, che nella metafora da lui scelta la soluzione più coerente con l’obiettivo – una partita appassionante che tutti possono guardare – sia quella che in Italia è diventata nota come “politica dei redditi”: gli spettatori che si coordinano tra loro per rimanere seduti mentre i giocatori continuano la loro sfida senza interferenze dall’esterno.

«È davvero così assurdo immaginare che possiamo combattere l’inflazione con qualcosa di meno doloroso che vada oltre l’aumento dei tassi di interesse fino al punto in cui imprese e lavoratori si trovano al limite?» si è chiesto Krugman sul “New York Times”.

Quando ho iniziato a lavorare al mio libro sull’inflazione, ero abbastanza d’accordo con l’attitudine di Krugman a minimizzare il problema ed evitare di ripetere alcuni errori collettivi che abbiamo commesso nella crisi 2009-2012, quando i timori per la sostenibilità del debito pubblico di alcuni stati (Italia e Grecia incluse) hanno spinto a misure di austerità contabile molto severe.

Per timore di un male futuro – l’insostenibilità dell’indebitamento – mercati finanziari, governi e banche centrali hanno inflitto sofferenze concrete e immediate che, secondo diverse analisi, non erano del tutto giustificate e forse erano sproporzionate.

Dopo aver analizzato il problema da diverse dimensioni, devo riconoscere di essere molto più preoccupato di prima sulle prospettive dell’inflazione e sul suo impatto sulle nostre società.

Molti governi, incluso quello italiano, sono tentati dall’individuare nelle banche centrali il nemico, invece che nell’inflazione: secondo questa attitudine, il problema per l’economia deriva dall’aumento dei tassi di interesse e dalle politiche restrittive che possono spingere alla recessione, invece che direttamente dall’inflazione.

Contestare le banche centrali per un approccio un po’ meccanico, che spinge a reagire a un problema dall’origine complessa come l’inflazione postpandemia con uno strumento ormai antico come i tassi di interesse è inoltre considerato non soltanto legittimo, ma anche progressista. Perché l’esito delle politiche restrittive può essere la recessione. Ma le grandi conquiste in termini di diritti economici e sociali sono sempre arrivate in momenti di espansione dell’economia, quando è anche più facile correggere le disuguaglianze perché si tratta di modulare i tassi di crescita delle diverse componenti della società e non di togliere a uno per dare a un altro.

Insomma, sembra davvero inaccettabile che l’unica scelta che abbiamo sia tra inflazione e recessione, tanto più che nel contesto post-Covid gli sforzi per arginare l’aumento dei prezzi vanno inevitabilmente a erodere i risultati ottenuti dalla politica economica nell’evitare che un disastro sanitario diventasse un disastro sociale.

Il ricorso all’indebitamento, privato e soprattutto pubblico, ha mitigato le conseguenze dell’improvviso blocco dell’attività economica nel 2020 e in parte nel 2021, così che le imprese fossero ancora attive e i lavoratori ancora al loro posto quando poi il mondo è ripartito.
Quel debito è stato sostenibile anche grazie all’azione delle banche centrali che ne hanno tenuti bassi i tassi di interesse e dunque il costo.

Ma se adesso l’inflazione derivata – anche – dalle politiche anti-Covid va combattuta con misure che mandano i paesi industrializzati in recessione, non era più semplice evitare di intervenire nel 2020-2021 e lasciare che il mercato facesse il suo corso, anche a rischio di trovarsi in una Grande depressione tipo anni venti del secolo scorso?

Oppure, detto in altro modo, le banche centrali rischiano di disfare quello che hanno fatto i governi e di farci arrivare il conto della pandemia con due anni di ritardo ma non per questo con meno conseguenze?

Perché l’aumento dei tassi di interesse – nel quale Bce e Federal Reserve si sono impegnate con grande riluttanza e, secondo molti, un certo ritardo – non si limiterà a rallentare la crescita, con costi più alti per finanziare consumi e investimenti, ma renderà nel tempo più oneroso il debito già in circolazione. Con il pericolo di rendere più probabili crisi di finanza pubblica come quelle che abbiamo visto tra 2009 e 2011.

Tutti rischi concreti, certo, ma non bisogna dimenticare che la partita di calcio per la quale abbiamo comprato i biglietti è un po’ diversa da quella che ci ha fatto intravedere Paul Krugman.

Se vogliamo stare alla sua metafora, dobbiamo aggiungere qualche dettaglio: gli spettatori si alzano tutti in piedi (inflazione) dopo che l’arbitro (la banca centrale) ha fatto di tutto per incitare la folla dai megafoni, ha annunciato gol imminenti a ripetizione, ha fornito medicine sperimentali per far continuare a giocare i campioni infortunati e così via…

L’eccitazione degli spettatori, insomma, non è soltanto la fisiologica conseguenza di una partita interessante, ma il risultato di una serie di stimoli dati da chi, in teoria, doveva solo vigilare che tutto si svolgesse correttamente.

Dunque, dopo anni di emergenze continue tra Covid e guerra, non si può più tanto facilmente commentare la reazione degli spettatori senza chiedersi cosa l’ha davvero provocata, se la partita o l’arbitro.

Fuori di metafora: alla vigilia e durante gli anni delle crisi continue, le banche centrali hanno espanso enormemente i propri bilanci, prima nel tentativo di evitare una deflazione che pareva imminente, poi per arginare le conseguenze di quello che sembrava un infarto dell’economia globale, cioè il blocco delle attività nei momenti più duri della pandemia.

Ci sono molte ragioni per adottare adesso politiche monetarie restrittive, e quindi per cercare di far sedere gli spettatori anche al prezzo di rendere la partita meno interessante.

Da “Inflazione. Cos’è, da dove viene e come difendersi” (Utet), di Stefano Feltri, p. 240, 17€

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