Tocca decidersiMeloni non può predicare il presidenzialismo per la maggioranza e l’unità nazionale per l’opposizione

Se è vero che per superare lo stallo sul Pnrr occorrono una convergenza e una collaborazione straordinarie, è giusto che la minoranza si comporti di conseguenza, ma il governo non può fare il gioco delle tre carte

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Sulla ragione di fondo che starebbe dietro le ricorrenti provocazioni, chiamiamole così, provenienti da esponenti di Fratelli d’Italia, anche autorevolissimi, si sono fatte fin qui diverse ipotesi, che si possono ridurre a un’alternativa secca: ignoranza o protervia, effetto involontario della scarsa preparazione o al contrario precisa intenzione di costruire una propria egemonia, o perlomeno di sviare l’attenzione da problemi più seri.

Quest’ultima è l’ipotesi più diffusa, e del resto non esclude del tutto le altre, ma è anche una lettura molto parziale. Dire infatti che aprire una polemica sulla Resistenza o sui forestierismi è più semplice che occuparsi dei ritardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza è solo una parte della verità: l’altra parte della storia è che anche per l’opposizione attaccare il governo su questo è molto più semplice che parlare del Pnrr (e delle relative, diffuse, responsabilità), e lo stesso vale per giornalisti e opinionisti: perché anche scrivere un articolo sul fatto che il governo non vuole parlare di cose ben più serie e complicate è molto più facile che occuparsi di quelle, anzi è forse la cosa più facile di tutte.

Questo problema però non è una novità, da decenni il dibattito politico è pressoché interamente occupato da questioni identitarie, anche se ogni volta ci raccontiamo il contrario. Anche se persino a proposito dell’ultimo congresso del Partito democratico lo abbiamo spacciato come una novità clamorosa e una svolta epocale (quando mai, sui giornali e in tv, nei convegni e nei talk show, ma persino al cinema, nel teatro o nei romanzi abbiamo parlato di qualcosa di diverso dall’identità della sinistra?). Anche se pressoché ogni anno da trent’anni a questa parte ci stupiamo della puntuale polemica sul 25 aprile, e del fatto che la destra non avrebbe davvero regolato i conti con la propria storia (perché l’unico momento in cui non parliamo dell’identità della sinistra, ovviamente, è quando parliamo dell’identità della destra).

Sono trent’anni che la politica non parla d’altro: è il modo in cui dagli anni novanta abbiamo interpretato il bipolarismo indotto dal sistema maggioritario, con il bel risultato di avere ottenuto al tempo stesso il massimo della polarizzazione e il massimo della paralisi. Di qui – o perlomeno anche di qui – la trentennale stagnazione in cui siamo tuttora impantanati.

Al tempo stesso, quando questo gioco di interdizione reciproca tra gli schieramenti ci ha portati a un passo dal tracollo definitivo, quando insomma non si è più potuto continuare con le chiacchiere e si è dovuto compiere alcune scelte politiche dirimenti, si sono chiamati i tecnici e si sono formate quelle maggioranze di larghissima coalizione che si sarebbe ricominciato a deprecare un minuto dopo la fine dell’emergenza: dal governo Dini del 1995 (per non perdere l’aggancio all’Europa della moneta unica) al governo Monti del 2011 (per restarci, nell’unione monetaria), fino al governo Draghi del 2021 (per la stessa ragione, resa più drammatica dalla pandemia e dalla palese insipienza del governo precedente, tra padiglioni a forma di primula per i vaccini e task force a catena per gli investimenti).

Dovendo scommettere, sarebbe quindi facile prevedere che andrà così anche questa volta. Con il consueto corollario, ovvero le riforme istituzionali, l’altra immancabile battaglia fasulla del nostro immutabile copione: con il leader e la maggioranza in carica che ancora una volta si illudono di poter fare cappotto, disegnandosi un sistema presidenziale o para-presidenziale su misura, e ottengono al contrario l’unico risultato di compattare tutte le opposizioni e tutti i poteri costituiti contro di loro. Una strada che porta solo ad alimentare oltre misura la radicalizzazione e la polarizzazione dello scontro, al termine della quale attende sempre una nuova crisi istituzionale, una nuova emergenza economica, politica e sociale, e dunque, inevitabilmente, una nuova maggioranza di unità nazionale. È la ricetta del declino di questi trent’anni. La domanda è: possiamo permettercelo, ancora una volta, proprio adesso che l’Europa, con uno straordinario sforzo di solidarietà, ci ha offerto l’ultima occasione di rimetterci in carreggiata?

Per spezzare questo circolo vizioso servirebbe un sussulto di coraggio e senso di responsabilità da parte di tutti. Se è vero che per superare lo stallo sul Pnrr occorrono una convergenza e una collaborazione straordinarie tra tutte le forze politiche, è giusto chiedere che l’opposizione si comporti di conseguenza (come ha sostenuto ieri Pier Ferdinando Casini), ma evidentemente la maggioranza non può pretendere, contestualmente, di andare avanti con le forzature sulle regole del gioco, tentando di costruire un sistema presidenziale o semipresidenziale che sarebbe peraltro politicamente incompatibile con l’afflato unitario richiesto (come ha notato l’ex parlamentare del Partito democratico Fausto Raciti).

Il governo ha già una larga maggioranza, dispone già dei poteri, delle prerogative e dei numeri necessari a fare tutto quel che crede. Se pensa di poter governare così, lo faccia e si assuma la responsabilità dei risultati. L’unica cosa che non può pretendere è il singolare privilegio di governare con spirito maggioritario e presidenzialista, ma con i vantaggi di un’opposizione da unità nazionale.

Se neanche la larga maggioranza di cui dispone è sufficiente, evidentemente il problema è a monte, e non c’è riforma elettorale o istituzionale che potrà bastare (nemmeno nell’improbabile caso in cui si riuscisse a farla passare).

L’unico compromesso possibile e ragionevole, che dovrebbe essere Giorgia Meloni ad avanzare, nel suo interesse, è dunque un’offerta di dialogo non truccata, che preveda un disarmo bilaterale e una definizione trasparente delle rispettive responsabilità: cioè niente riforma presidenzialista e centralità del parlamento nella gestione del Pnrr, in una logica bipartisan che troverebbe la sua migliore e più forte garanzia, in prospettiva, in una legge elettorale proporzionale, per chiudere una volta per tutte la troppo lunga stagione del bipolarismo di coalizione e delle sue nevrosi.

Lo so, lo so, è ovvio che non succederà. È ovvio che Fratelli d’Italia, non appena sentisse anche solo ventilare una simile ipotesi, griderebbe all’«inciucio», e che lo stesso farebbero, con ogni probabilità, Elly Schlein e il resto delle opposizioni. È il motivo per cui, dovendo scommettere, vi ho già detto su quale esito punterei. Il problema è che di questo passo ci resterà ben poco da scommettere.