Paradosso AzzurroLa Nazionale va in cerca di oriundi ma non può convocare chi è nato in Italia

Dopo Retegui, il ct Mancini potrebbe chiamare a Coverciano anche Cherki del Lione, franco-algerino con una nonna di Bari. Però molti figli di immigrati non possono essere selezionati perché l’iter per la cittadinanza è complicatissimo

AP/Lapresse

Il nuovo corso della Figc sembra essere pesantemente orientato al reclutamenti degli oriundi per la Nazionale di Roberto Macnini. In realtà è una storia vecchia, che affonda le sue radici in oltre un secolo di storia, e che ciclicamente torna di moda e racconta un Paese anomalo a livello europeo, soprattutto tra le grandi potenze del calcio.

Il nome nuovo è quello di Mateo Retegui, autore di due gol nelle sue prime due apparizioni in azzurro a fine marzo, ma non è l’unico. Contemporaneamente al suo arrivo in Italia, l’Under-21 ha convocato anche il giovane Bruno Zapelli. Sono entrambi nati e cresciuti in Argentina, figli di argentini, ma in possesso dei requisiti per la cittadinanza italiana a causa dei loro nonni. Sono i due capofila di un progetto che sta facendo parlare anche all’estero, tant’è vero che nel Paese sudamericano si pensa ci sia proprio la Figc dietro alla decisione del diciassettenne Gianluca Prestianni del Vélez Sarsfield di rinunciare alla chiamata per il Sudamericano Under-17. E nei giorni scorsi è emerso il caso di Ryan Cherki, talento franco-algerino del Lione ma con un nonno italiano, che lo rende papabile per un posto in azzurro.

Un’anomalia nel calcio multiculturale
In una società multiculturale è abbastanza normale che le selezioni nazionali convochino anche giocatori di origini straniere: Inghilterra, Francia, Germania, Belgio e Olanda rappresentano perfettamente questo trend, che rispecchia il tessuto sociale in cui viviamo. Eppure, quello dell’Italia appare decisamente come un caso atipico.

Retegui, Zapelli, Prestianni e Cherki non sono italiani figli di immigrati stranieri, ma l’esatto opposto: stranieri, figli – più propriamente, nipoti – di immigrati italiani. Di per sé, questa non è una novità assoluta: sono molte le Nazionali di calcio che negli ultimi vent’anni hanno iniziato a convocare i figli dell’emigrazione. Il fatto è che questa via è stata percorsa in maniera massiccia solo dai Paesi extra-europei, africani in particolare. È una forma di resistenza alla sottrazione di risorse umane (calciatori, nello specifico) innescata dalle disuguaglianze economiche tra Nord e Sud del mondo.

La Nazionale del Marocco, che con il quarto posto agli ultimi Mondiali ha ottenuto il più grande risultato della storia di una selezione africana nel torneo, aveva quindici giocatori cresciuti e spesso pure nati in Europa, oltre all’allenatore Walid Regragui. Negli ultimi anni, anche le federazioni sudamericane stanno iniziando a tenere d’occhio i figli dei propri emigranti, come dimostrano alcuni casi visti all’ultimo Sudamericano Under-20 (Nico Paz, Alexei Rojas, Álvaro Rodríguez).

Ma l’Italia è un caso a parte: un Paese europeo, un Paese d’immigrazione, che va a caccia degli eredi di chi lasciò il Paese un secolo fa, mentre ignora largamente ciò che invece gli altri Paesi europei stanno sfruttando: i cittadini di origine straniera. Un paradosso tutto nostro, che mette in evidenza le contraddizioni di un’Italia fuori dal tempo.

La questione della cittadinanza
Basta fare un confronto tra gli Azzurri e le altre principali selezioni dell’Europa occidentale per accorgersi che qualcosa non torna. Quella di Mancini è assolutamente una nazionale multietnica, ma i suoi “stranieri” sono quasi tutti oriundi: Jorginho, Emerson Palmieri, Rafael Tolói e adesso Retegui. Solo Willy Gnonto fa eccezione. Eppure, gli immigrati di seconda generazione nel nostro Paese rappresentano il 2,4 per cento della popolazione. Anche il mondo del calcio li conosce bene: Mario Balotelli, Moise Kean, Destiny Udogie, Alfred Gomis, Adam Masina, Kristjan Asllani.

Nessuno di loro gioca però in Nazionale, al momento, e gli ultimi tre non lo potranno mai fare, visto che alla fine hanno optato per il Senegal, il Marocco e l’Albania. Ma se Gomis e Masina hanno scelto le nazionali dei genitori è anche perché non hanno trovato molto spazio nell’Italia maggiore, dopo aver giocato con le selezioni giovanili. Nel caso di Asllani dell’Inter, cresciuto in Toscana, semplicemente una chiamata in azzurro è stata a lungo impossibile a causa della mancanza di cittadinanza: la legge prevede un percorso molto complesso per ottenere un passaporto italiano, in assenza di parenti originari del nostro Paese, il che dà vita ai paradossi che il calcio sta rendendo sempre più evidenti.

Retegui e Cherki possono diventare italiani per legge grazie anche a un solo nonno, pur non essendo mai stati nel nostro Paese né parlandone la lingua. In questo, di per sé, non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che dall’altro lato abbiamo ragazzi nati e cresciuti qui che fino ai diciotto anni non possono nemmeno fare richiesta di passaporto, e sono quindi a tutti gli effetti stranieri. È il caso di Wisdom Amey, diciassettenne difensore del Bologna nato e cresciuto a Bassano del Grappa, ma ancora senza cittadinanza italiana e con zero presenze nelle nazionali giovanili. O quello, altrettanto clamoroso, di Yunus Musah: l’Italia è il Paese in cui ha trascorso la maggior parte della sua vita, ma rappresenta gli Stati Uniti perché nato a New York, anche se ha lasciato il Paese ad appena due mesi di vita.

La situazione del calcio mostra bene che Paese vuole essere l’Italia, almeno nelle intenzioni della sua classe politica: quello in cui si prova a costruire il futuro guardando al passato più che al presente.

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